Chi siamo

Osservazioni, schizzi, resoconti, pensieri imperiodici dalla stagione del centro di promozione teatrale La Soffitta e non solo. Servizi, approfondimenti e recensioni a cura del laboratorio di critica teatrale "Lo sguardo che racconta" condotto da Massimo Marino presso la Laurea Specialistica in Discipline Teatrali dell’Università degli studi di Bologna.


Direttore: Massimo Marino

Caporedattore: Serena Terranova

Redattori: Beatrice Bellini, Lorenzo Donati, Alice Fumagalli, Francesca Giuliani, Maria Cristina Sarò

Web designer: Elisa Cuciniello

Segreteria organizzativa: Valeria Bernini, Tomas Kutinjac

Hanno scritto: Valentina Arena, Stefania Baldizzone, Valeria Bernini, Elena Bruni, Alessandra Consonni, Alessandra Coretti, Elisa Cuciniello, Irene Di Chiaro, Serena Facioni, Antonio Guerrera, Sami Karbik, Tomas Kutinjač, Roberta Larosa, Nicoletta Lupia, Valentina Miceli, Paola Stella Minni, Andrea Nao, Saula Nardinocchi, Vincenzo Picone, Giusy Ripoli, Maria Pina Sestili, Giulia Tonucci

ATTENZIONE

Questo blog è realizzato dal laboratorio in completa autonomia dal Dipartimento di Musica e Spettacolo dell’Università di Bologna.




venerdì 29 febbraio 2008

Larve umane, nude e mascherate

CANI DI BANCATA, di Emma Dante

Una denuncia furiosa di Emma Dante sulla Famiglia e su Cosa Nostra, dove la mafia assume le sembianze materne e tutti si inchinano alla sua volontà mettendo le proprie misere vite nelle mani di una mamma santissima che non li abbandonerà mai. Un femmina- cagna che mostra i denti prima di aprire le cosce. Il potere mafioso viene descritto finalmente per quello che è realmente: un agglomerato di volgarità ed indecenze.


Larve umane, nude e mascherate. Schierati impietosamente, i cani di bancata, parassiti nutriti col sangue della giustizia, si masturbano sotto gli occhi di una madre perversa, diavoli battezzati in adorazione di una puttana; “io, madre, vi affido l’Italia”. Emma Dante con il suo spettacolo Cani di bancata affonda le mani, senza timore di sporcarsi nel fetido e putrido fango della mafia, ridisegnando la cartografia del nostro paese: un’Italia capovolta con la Sicilia che le fa da cappello. L’abilità costruttiva della teatrante palermitana ci rappresenta, con un ciglio grottesco ma perfidamente serio, le regole del gioco mafioso e i comandamento della sua religione.
La mafia ha il volto di una madre-cagna che celebra il rito d’iniziazione dei propri figli “Nel nome del Padre, del Figlio, della Madre e dello Spirito santo”. Essi danzano con “mamma santissima” scambiandosi il bacio dell’onore, un perfetto ballo circolare come quelli che si svolgono a corte, dove i bravi danzatori eseguono alla perfezione i loro schemi, dai quali non conviene uscire.
Il ventre della madre partorisce il banchetto in cui verrà consumata l’Ultima Cena, dove il nuovo entrato occupa il posto d’onore nella rigida piramide gerarchica: un uomo come tanti, un capotreno, che per vivere è costretto a sacrificare tutto per affiliarsi a questa perfida Famiglia, carnefice di se stessa. La mafia siede al vertice del Parlamento, è la puttana che seduce lo Stato, che ammalia e umilia gli amanti che vi siedono oggi: spacciatori e cardinali, giornalisti e imprenditori, colonnelli e sottosegretari, dottori e liberi assassini.
La scenografia è presente come attore sulla scena e gli attori spesso divengono loro stessi macchina teatrale. Gli oggetti in scena sono essenziali e funzionali; diventano altro da sé, acquistano nuovi usi e significati, come il vestito di mamma santissima che si trasforma nella tovaglia del banchetto o i cappelli colorati che gravano sulla teste dei figli della mafia.
Il teatro di Emma Dante non credo voglia procurare o scandalizzare, ma accusare e condannare senza troppi sotterfugi. Una presenza viva e vitale del nostro teatro che sa usare bene gli attrezzi della scena, che conserva tutta la sfrontatezza dell’immaginazione e della creazione.
La Compagnia Sud Costa Occidentale, da lei stessa fondata nel 1999, trae la sua forza e la sua originalità da un radicato lavoro in una delle molte periferie italiane e forse anche teatrali, ma anche da un onesto impegno teatrale e sociale.

Saula Nardinocchi

giovedì 28 febbraio 2008

Tra le parole, il protagonista è ancora il silenzio

ALTRI GIORNI FELICI, di Remondi e Caporossi

Il vecchio e il nuovo, l’inizio e la fine, Beckett e Rem e Cap che si incontrano per raccontarci “Altri giorni felici”, così lontani e vicini allo stesso tempo.

Una confessione, un omaggio, forse il rito di un passaggio…ricordi che riaffiorano confusi, conservati in una ormai affaticata, ma lucida mente, che li raccoglie per conservarli in un barattolo e consegnarli a chi sta nascendo e prenderà il suo posto.
“Altri giorni felici” è il nuovo, e mi ha lasciata la sensazione che sia l’ultimo, spettacolo della storica coppia romana, Claudio Remondi e Riccardo Caporossi, pilastri della ricerca teatrale italiana.
Questo spettacolo, ispirato al testo Giorni felici di Beckett, la definirei un’autobiografia della loro storia teatrale e della loro sensibilità artistica, che molto deve all’universo beckettiano. “Giorni felici” fu il primo lavoro che misero in scena all’inizio della loro avventura teatrale negli anni ’70, ma non fu mai rappresentato a causa del rifiuto, da parte dei possessori dei diritti, di concederne il permesso.
A Rem&Cap non manca certo l’inventiva! Dopo trentacinque anni, facendo scacco matto alle pratiche legali, riescono non solo a portare in scena un lavoro di Beckett, ma a rimanere fedeli al loro particolare modo di scrivere la scena teatrale, trasformando e plasmando gli oggetti affinché si riconosca la materia di partenza, ma vi si veda altro, si aggiungano altri significati.
Questa volta Remondi è sul palco con un giovane attore, Davide Svignano, mentre Caporossi disegna una raffinata regia, che cristallizza un luogo ai confini del tempo e dello spazio.
Ora le parole inondano la scena, si rincorrono, si ripetono, esitano e tornano a strabordare. Azioni minimali e asciutte, e non manca il protagonista di tutti i loro spettacoli, il silenzio. Remondi, seduto in una sorta di girello, si ritrova allo stesso tempo bambino e anziano, a metà fra il suo cappello e le sue scarpe, e sfilando e infilando le chiavi nei tanti fili della sua vita, apre e fa fuoriuscire pezzi di ricordi. Una larva fetale al di sotto, vi si nutre.
Nel secondo atto, Remondi parla e ascolta, come il vecchio Krapp di Beckett, la sua voce registrata, con le spalle agli spettatori…e poi lentamente con passo umile e stanco esce dalla scena.

Saula Nardinocchi

Aleppe!


Uno sguardo dall’interno sul laboratorio di Riccardo Caporossi

Un lavoro collettivo che parte dalla “Divina Commedia” per arrivare alla costruzione di un’azione autonoma e originale in cui il disegno scenico del regista, e le “interferenze” degli allievi trovano soluzioni coerenti.

***


Il primo giorno non manca nessuno; i diciannove studenti del DAMS ( e non solo, tanto che tra di loro campeggia, alto e magro, uno studente di ingegneria!) che si sono iscritti al laboratorio di Riccardo Caporossi, “Aleppe!”, sono pronti ad immergersi in sei ore di duro lavoro quotidiano, per dieci giorni consecutivi. Chi scrive, non è tra questi; l’informazione, certamente non è influente ai fini del resoconto sull’attività svolta, ma lo è per riflettere su come a volte, inconsapevolmente, il teatro ci trascini nei suoi meccanismi più intimi, anche a prescindere dalle nostre volontà, e su come alcune occasioni fortuite, si rivelino illuminanti più di tante altre che invece abbiamo fortemente cercato. Cosa è successo in quelle prime sei ore di lavoro? Apparentemente nulla, tanto che alla fine della giornata, le facce che si vedono in giro, sono interdette, talvolta imbronciate: Dove è finito il training dell’attore? Gli esercizi sulla respirazione sono stati banditi dal teatro? Dov’è il testo? Ci sarà una componente di improvvisazione? Cosa faremo se il disegno dello spettacolo è già compiuto? E poi…chi é questo regista che parla così sommessamente, dalle sembianze beckettiane (neanche tanto vaghe), che arriva con la sua professionalissima ventiquattro ore piena di appunti e di disegni, che risponde pacatamente anche quando lo subissiamo di domande, che sembra quasi volerci tenere celato il senso di quello che andremo a fare? Così, sulla scorta di questi amletici dubbi, il secondo giorno il numero dei partecipanti si è drasticamente ridotto, da diciannove a undici…dodici, compresa me che, come anticipavo, ero lì con uno scopo differente, osservare il lavoro condotto da Caporossi per la mia tesi di laurea. Cosa avrà fatto fuggire a gambe levate dal laboratorio gli altri? Il mio ruolo di osservatrice esterna, ha suscitato questa intuizione: a provocare la defezione non è stato ciò che si è fatto il primo giorno, piuttosto quello che non si è fatto… niente esercizi sulla respirazione, né sulla voce, nessuna accenno alla preparazione fisica…Ma cerchiamo di chiarire meglio questo punto. Superati i preamboli delle reciproche presentazioni, il regista propone un’esercitazione/gioco di gruppo il cui scopo è quello creare una catena coerente e ritmicamente determinata di azioni , senza fratture o battute d’arresto…sembra facile, in realtà non lo è. Ma ( finalmente!) il senso del lavoro inizia lentamente a svelarsi; si parte dalla lettura di un estratto del settimo canto dell’Inferno dantesco, che racconta le tristi pene degli avari e dei prodighi – peccatori per eccesso – e dalla quale si apprende che “Aleppe!” è un’invocazione che i dannati pronunciano, ma della quale non si conosce il preciso significato, un vero rompicapo anche per i critici danteschi più ferrati. L’ipotesi interpretativa privilegiata è quella secondo la quale “Aleppe!”, sia parola che evoca la prima lettera dell’alfabeto ebraico “aleph” e dunque l’idea dell’origine del tutto. Ma cosa ha a che vedere tutto questo con gli enormi sacchi di iuta che d’improvviso Caporossi ha portato sul palco del teatro? Apparentemente nulla; il compito dei partecipanti ora, è quello di creare delle improvvisazioni in coppia, avendo a disposizione due elementi: il sacco, e una “battuta”: “Perché tieni? Perché burli?”, ovvero le domande che i dannati del settimo canto dantesco si ripetono in una cantilena estenuante. Il secondo giorno, gli strenui allievi resistono, ma la defezione di altri ha fatto saltare il gioco delle coppie; come rimediare a tutto questo? Mi viene gentilmente chiesto di prestarmi, solo per quel giorno, a sostituzione di una persona; ancora non sapevo che quella persona era solo l’ultima di quelle che non sarebbero venute più, e che la mia sostituzione sarebbe diventata permanente, aggregandomi così definitivamente nella schiera dei prodighi o degli avari, a seconda delle esigenze del caso. I primi giorni di lavoro passano cercando e provando diverse soluzioni sceniche proposte dagli allievi: alcune di queste sono le stesse che, ripulite dalle loro imperfezioni, vengono scelte per essere intessute nella trama dello spettacolo. Perchè nel frattempo infatti, qualche velo è caduto per rivelare le apparenti, nebulose finalità di questo laboratorio: l’idea è quella di costruire uno spettacolo in cui un primo momento - il cui disegno è già ben chiaro nella mente del regista - si congiunga con un altro momento dominato dalle improvvisazioni proposte dagli allievi, cercando però tra questi due istanti una soluzione di continuità, continuità scandita, oltre che dalla presenza rituale dei sacchi in scena, anche dalle musiche e dai ritmi, scelti non come accompagnamento musicale alle azioni, ma come tempo all’interno del quale le azioni stesse si svolgono. È così che progressivamente prende forma la prima parte dello spettacolo: un vagare di anime in pena estenuante e senza consolazione, scandito dalla presenza di due guardiani che indicano la direzione del percorso, determinano i momenti di pausa e quelli di movimento, un ingranaggio che si muove all’interno del contesto sonoro creato dalle musiche di Luciano Berio. Ma qual è l’anello di congiunzione tra questi due momenti? È l’idea del Male, un Male atavico e imprescindibile che vive annidato nel profondo del cuore dell’uomo; allora, ecco che all’invocazione “Pape Satan, Pape Satan, Aleppe” l’ingranaggio infernale si blocca, prodighi e avari si trasformano in deportati nei campi di concentramento - atmosfera nella quale ci introduce il contesto sonoro, l’operetta di Shoenberg “Il sopravvissuto di Varsavia” - che in un crescendo di volumi e disperazione, trascina lentamente tutti fuori dalla scena, per poi ripresentarci sotto spoglie diverse. La seconda parte dello spettacolo coincide idealmente con la seconda fase dell’attività laboratoriale. Dopo i primi giorni trascorsi a montare gli ingranaggi del “meccanismo” e a stimolare gli allievi nella ricerca autonoma di soluzioni scenicamente efficaci, ora si procede ad una scrematura di queste stesse azioni e ad una loro “pulitura” per renderle fattibili. Alcune soluzioni vengono preferite ad altre; sono soprattutto quelle che creano automatismi e ripetitività nelle azioni, ad essere promosse e imbastite tra di loro cercando di uniformarle nel ritmo. Di volta in volta si vedono dunque sulla scena; una catena di montaggio di esseri deprivati della loro umanità, insaccati e collocati su un immaginario nastro trasportatore - molto presente però concettualmente nel ticchettare costante di un metronomo - un re che pomposamente sfila su un tappeto che due servi fanno a gara per stendergli ai piedi, una solitaria viaggiatrice che si flagella, una vittima e una carnefice indissolubilmente legati da una corda e dal fardello della loro pena, un “sacco” che trascina a peso morto il corpo di un uomo. La difficoltà di queste azioni risiede soprattutto nel loro “montaggio”. Era infatti necessario che, per non interrompere il senso di ciclicità dell’azione, sapientemente costruito nella prima parte del lavoro da Caporossi, anche le improvvisazioni avessero una loro ritmicità, sempre la stessa; incalzante e inesorabile. Sono state provate diverse soluzioni fino a quando sì è finalmente trovata la sequenza che maggiormente rispondeva a questa necessità. L’ultima fase del lavoro è costruita sul processo di “espiazione” del peccato, cercando anche in questo caso, soluzioni sceniche coerenti. E’ così che dopo un’ultima invocazione al grido di “Aleppe!” cui fa seguito, ora come in precedenza, la discesa di una fioca lampadina attorno alla quale si riuniscono i dannati, comincia il processo di “conversione” da uno stato all’altro. Tutti, accomunati dal loro essere peccatori, sono ora legati dall’urgenza del cambiamento, cambiamento che paradossalmente, coincide con l’uniformarsi della loro apparenza; infatti, cambia il loro stato, ma la loro immagine è reiterata con forza sulla scena. Tutti, con il sacco, preparano una sorta di sudario nel quale avvolgersi e con il quale coprirsi, per poi cominciare un lento giro sulla scena scandito d una sequenza codificata di passi. Due figure “altre” rispetto a queste, avanzando dai lati della platea, attraversano diagonalmente la scena; il richiamo appena percettibile di un campanello, avverte i dannati della loro imminente uscita; accodandosi a queste due figure, abbandonano la scena. E’ attraverso questo lavoro che gli allievi hanno potuto confrontarsi con le modalità sceniche e le soluzioni teatrali più praticate da Riccardo Caporossi, tanto nella sua attività laboratoriale, quanto nel suo lavoro come elemento fondante di un duo artistico che da trentasette anni è sulle scene di tutti i teatri, Rem e Cap, la “formazione” cui da giovanissimo, Caporossi ha dato vita con Claudio Remondi. Il senso dell’immobilità, il tentativo di veicolare un messaggio anche attraverso canali alternativi al parlato, la costruzione di un lavoro in collettivo che però desse spazio anche alle esigenze e alle proposte degli allievi, una drammaturgia dello spazio che fa di quest’ultimo un elemento con il quale relazionarsi e non uno sterile cornice per le azioni…il risultato finale di uno spettacolo con una sua coerenza interna, che però è riuscita ad arrivare anche alla platea…questi sono stati i “dettati” artistici di “Cap”, questo il succinto resoconto di dieci giorni di duro lavoro, di polvere, di crisi asmatiche provocate dai sacchi di iuta…alla fine, i dodici temerari che hanno resistito strenuamente fino all’ultimo, sono soddisfatti. Anche la mancata osservatrice esterna.

Giusy Ripoli.

Da Winnie a Claudio Remondi

ALTRI GIORNI FELICI, di Remondi e Caporossi

Il percorso di un lavoro beckettiano che lo storico duo del teatro italiano Rem & Cap ha sapientemente attraversato negli anni, per approdare a un esito finale autonomo.

L’uomo si trova da sempre in una condizione di reiterata impotenza, davanti alla realtà, davanti all’infinito, davanti a se stesso; l’arte, di contro, cerca di dar forma a questi dubbi generando, se non possibili risposte, tortuosi percorsi di ricerca e riflessione.
Da trentacinque anni Claudio Remondi e Riccardo Caporossi - due formazioni differenti - l’uno studi architettonici l’altro scuole di teatro tradizionali, percorrono insieme un tragitto che ha segnato la storia del teatro di ricerca in Italia.
“Altri giorni felici” sembra rappresentare la chiusura di un ciclo, o forse un più chiaro richiamo a quel testo di Beckett che nel 1970 fece incontrare i due attori, e che però non poté mai essere rappresentato.
Gli scritti del drammaturgo irlandese sono infatti protetti dal diritto d’autore, in maniera capillare, dall’ultimo suo erede Edward Beckett, e in Italia dall’agenzia teatrale D’Arborio, che nel 2006 ha intrapreso una battaglia legale con Roberto Bacci, regista del teatro di Pontedera, “reo”di aver affidato a due sorelle gemelle le parti di protagoniste di “Aspettando Godot”.
Nonostante il grande scrittore statunitense Edward Albee, definisca “stupido” oltre che illegale, non rispettare pedissequamente le indicazioni nei testi di Beckett, la genialità di questo, non risiede forse nella capacità di far riflettere su concetti universali, descrivendo una realtà apparentemente assurda?
Questo Remondi e Caporossi lo sanno bene, e aggirando l’ostacolo prendono Beckett con i suoi “Giorni felici”, a pretesto drammaturgico e simbolico per fare, dopo trent’ anni, i loro “Altri giorni felici”.
Sulla scena una struttura in acciaio, ancorata al suolo con i suoi tentacoli, regge a mezz’aria un uomo, anch’egli ancorato alla sua realtà tra cielo e terra.
Dall’alto una fune regge un cappello (da sempre simbolo di Rem & Cap) che lentamente plana sul capo e sui pensieri dell’uomo, in basso un paio di scarpe fanno compagnia ad un altro attore, muto e anonimo nella sua tuta bianca, pronto a ricevere tutto ciò che “cade dal cielo”.
Poi la parola prende il sopravvento: parola evocata, giocata, vissuta e stuprata da un flusso di coscienza che non lascia spazio alla comprensione.
Centinaia di chiavi, riescono a instaurare una simbolica relazione con il verbo; la chiave come possibile libertà, la chiave come ricerca di un’interpretazione, la chiave come impossibilità di trovare quella giusta.
In scena c’è la vita, con le sue contraddizioni e i suoi punti irrisolvibili, quella vita che spesso non viviamo, ma osserviamo da lontano; ed ecco che nel secondo atto l’uomo non parla più, e sceso dal suo “piedistallo”, ascolta inerme e con le spalle rivolte al pubblico una voce (forse la sua?) che ripropone, con altre parole, quel graduale flusso di coscienza che questa volta lo inchioda al suolo e ai suoi pensieri.
Ecco perché “Altri giorni felici”; perché in questo paradosso risiede l’illusione che ogni giorno l’uomo crede di vivere.
Ma tutto ciò è davvero possibile fruirlo in un’ora e quaranta minuti di monologo e di segni che si accavallano continuamente? Ed è possibile capire questi senza conoscere a priori il teatro di Remondi e Caporossi?
Forse no, ma è pur vero che se l’arte teatrale si arrendesse a ciò, cesserebbe di esistere.

Vincenzo Picone

Remossi e Caporondi

DIECI GIORNI CON LA DIMENTICATA COPPIA STORICA DEL TEATRO ITALIANO

Un torrente ipogeo ha scavato il suo corso nella città, ha lasciato sedimenti di emozioni, conglomerati di suggestioni, rimanendo ignoto a molti, eccezion fatta per qualche breve affioramento. Claudio Remondi e Riccardo Caporossi, tornano a Bologna offrendo ancora una volta, con l’umanità e la semplicità che li contraddistingue, il meglio del loro lavoro: in circa dieci giorni hanno infatti presentato all’Arena del sole Altri giorni felici e hanno incontrato, coordinati dal professor G. Azzaroni, pubblico e studenti presso i laboratori CIMES in Via Azzo Gadino, dove Caporossi ha anche condotto il laboratorio Aleppe.
In tale contesto Altri giorni felici è apparso ancora più significativo ed emblematico di quanto già non lo fosse, proponendosi quasi come sintesi dell’esperienza di una vita vissuta insieme, restituita con uno sguardo malinconico che rilegge il passato e sente il peso del tempo. Come se chiudessero un piccolo grande cerchio nella storia del teatro italiano, infatti, i due si riappropriano di un lavoro iniziato nel 1970 sul beckettiano Giorni felici - mai effettivamente portato in scena perché ne vennero negati i diritti - questa volta stravolgendo e fagocitando il testo per poi restituirlo con esplosioni verbali che rapiscono lo spettatore nel vorticoso flusso di coscienza di Remondi.
Un grande telo si schiude alla vista dello spettatore lasciando apparire, sotto l’effetto di una luce algida ed epifanica, l’imponente macchina scenografica in acciaio che per tutto il primo tempo sospende la vita umana nel tempo indefinito della memoria e nello spazio magrittiano in cui dominano alcuni fra i principali oggetti cari ai due teatranti come scarponi e cappello, una vera e propria ‘divisa’ per Rem&Cap, strumenti che traghettano l’attore al limite fra persona e personaggio, fra se stesso e altro da sé, fra teatro e vita. Ed è proprio in questa terra di confine che si gioca la scommessa di Remondi di sviscerare a gocce i ricordi di rapporti familiari recuperati in extremis e vicende personali, attraverso una parola fisicizzata, svuotata di senso e sbilanciata dalla parte del significante , che permette solo allo spettatore attento di trarre informazioni sullo stato dell’attore-personaggio, secondo la tipica ambiguità del teatro di Rem&Cap che sembra, e argutamente si finge, incapace di dire e svelare fino in fondo le regole del gioco.
Nel secondo tempo la situazione si ribalta: Remondi è in piedi sulla scena e si pone con le spalle alla platea, costretto ad ascoltare la sua voce registrata che racconta e ci restituisce l’immagine di un uomo che si sente e si pente di essere complice di tutto il male compiuto nel mondo e che firma il suo atto di dolore inchiodandosi, con la forza delle radici di un albero secolare, nei suoi pesanti scarponi.
Uno spettacolo in cui gli impulsi derivanti principalmente dal testo beckettiano sono, quindi, imbevuti degli elementi tipici del teatro di ‘Remossi e Caporondi’, come li hanno definiti con un simpatico gioco di parole che però descrive in modo assai efficace il risultato di questo lavoro in cui motivazioni personali si fondono con una semplicità che diventa genialità negli incontri fra realtà dicotomiche come sono le stesse personalità dei due teatranti in questione e che emergono emblematicamente nei rapporti di pieno-vuoto, luce-buio, parola-silenzio. Durante il dibattito coordinato dal prof. G. Azzaroni il giorno seguente la presentazione dello spettacolo, è emerso come tali caratteristiche rimandassero ai principi base della cultura e delle rappresentazioni orientali, note per la loro essenzialità. Ma un confronto diretto con Remondi e Caporossi ha chiarito come la potenza d’ingegno della loro attività sta nel non ricercare o esplorare in luoghi altri dalla propria esperienza valori strutturanti ma nel far pervenire tutto da quei dati incorporati e maturati spontaneamente nel corso di una vita: etichette o categorie risultano infatti sempre inefficaci per descrivere i loro lavori, generalmente costruiti a partire da un’idea sviluppata laboratoriamente e fissata man mano attribuendo un ruolo preponderante alle connessioni fra spazio e oggetti, costruendo luoghi in cui si cerca di uscire e penetrare, delimitando recinti sacri. La medesima logica che Riccardo Caporossi ha magistralmente fatto conoscere ai partecipanti del laboratorio Aleppe, che in soli dieci, intensissimi, giorni è riuscito a dar vita appunto a un semplice impulso di partenza, ancora basato su quelle opposizioni fondanti tutto il teatro di Rem&Cap. Una dozzina di ragazzi, dei sacchi di iuta, la luce di una lampadina e pochi semplici gesti sono riusciti a rievocare un mondo ben più profondo in cui lottano male e bene nei loro parossismi, avari e prodighi, proprio partendo dalla suggestione data dal Pape Satàn, pape Satàn aleppe del VII canto dell’Inferno dantesco.
Bologna e gran parte degli addetti ai lavori, studenti in primis, sembrano essere rimasti indifferenti a questa iniezione e lezione di umanità e professionalità, come del resto accade già da tempo nel nostro paese. Rimane da chiedersi il motivo di tale disinteresse…forse per poi far sfoggio di onorificenze e medaglie al valore quando ormai – e forse neanche fra molto – sarà troppo tardi?

Elisa Cuciniello

Il delitto d'onore della giovane Pasqualina

DISSONORATA, di Scena Verticale

“Dissonorata”, ovvero quando la parola è materia e la materia è carne bruciata. La violenza subita da un corpo di donna e di madre in un piccolo centro dell’entroterra calabrese, dipinto abilmente da uno straordinario Saverio La Ruina. Spettacolo vincitore del premio UBU 2007…

Un flebile taglio di luce illumina una scarna seggiola al centro del disadorno palcoscenico: è qui che parole e gesti del magnetico Saverio La Ruina, nelle terrigne vesti di Pasqualina, daranno voce e corpo alla commovente e amara storia di una donna calabrese, macchiatasi del delitto peggiore: il delitto d’onore. Il testo originale, dell’autore e regista di Scena Verticale, dipinge uno spaccato di quotidiana emarginazione e sopruso, un quanto mai contemporaneo raccoglimento sulla condizione femminile: il monologo porta in scena i ricordi di una donna “dissonorata” e socialmente atrofizzata dalla sua subalternità nei confronti della figura maschile, senza la quale sembrerebbe smarrire una sua consapevole femminilità. La minuziosa caratterizzazione gestuale del personaggio è costruita con certosina maestria dall’attore calabrese, vincitore del prestigioso premio UBU 2007, il quale veste con inaspettata naturalezza i panni di una genuina Pasqualina: una donna goffamente paralizzata nel suo ruolo, mestamente composta, seduta con le ginocchia serrate, la testa china, le mani ripetutamente giunte , i piedi timidamente ciondolanti, raggomitolata nella sua condizione di “zitellona” sedotta, ingravidata e infine abbandonata.
L’immaginario popolare è arricchito dall’uso del dialetto stretto di Castrovillari, dietro al cui utilizzo si cela un complesso lavoro di teatralizzazione della lingua popolare: la musicalità della parlata, alla quale abbandonarsi senza dover necessariamente cogliere la singola parola, vaporizza nell’atmosfera una confidenziale intimità, offrendo spunti piacevolmente ironici e sottili.
Le musiche composte ed eseguite dal vivo da Gianfranco De Franco, e in particolare il minuto gong, cadenzano la ritmicità della narrazione, enfatizzando i climax emotivi; “i fiati danno respiro allo spettacolo…sono emotivamente giusti”, come spiega Saverio, accompagnando l’animo leggero della protagonista.
Un monologo drammatico, coinvolgente ed emozionante per la sua immediatezza tematica, narrato da una forte presenza scenica che catalizza, e soprattutto conserva nel suo sviluppo, l’attenzione dello spettatore.

Irene DI Chiaro

Io, madre, vi affido l'Italia

CANI DI BANCATA, di Emma Dante

Un impietoso sguardo sull’Italia attuale e una spietata denuncia alle moderne strategie della mafia sono il tema dell’ultimo spettacolo di Emma Dante, “Cani di bancata”. Ne viene fuori un’immagine che supera gli stereotipi folcloristici e regionali, per affondare nell’irriconoscibilità del fenomeno mafioso, radicato nelle istituzioni, capace di controllare la vita economica e politica del Paese.


“…Unn’aviti a nascondere i vostri nomi, tutti voi dovete diventare persone perbene, perché io non esisto […] Credetemi: io non esisto”: con queste parole si avvia alla conclusione l’ultima produzione della regista palermitana Emma Dante, Cani di bancata, interamente costruita sul tema-denuncia della mafia. E’ la sovversione degli ingranaggi, del funzionamento e delle modalità di non-riconoscimento, erette dietro a quella “cosa” che tutti chiamiamo mafia, che la drammaturga siciliana ha tentato di palesare: le cosche – rappresentate dai tre dialetti, siciliano, napoletano e pugliese, con cui si esprimono i personaggi - si sono evolute, hanno modificato il proprio modo d’essere: i tempi di Falcone e Borsellino sono ormai tramontati; non è più necessario far saltare in aria chi oltraggia il nome di questi corrotti, come era successo a Peppino Impastato. I mafiosi, gli stessi che si temeva di incontrare per strada o dal barbiere, oggi sono irriconoscibili; si confondono tra la gente perbene e conquistano l’Italia non più e non solo con le pistole, ma con l’economia e la politica. Non li vediamo, perché diveniamo d’un tratto ciechi come Liborio Paglino, l’inerme ferroviere che scopre troppo tardi qual era il prezzo da pagare per aver chiesto aiuto alla Madre; non li riconosciamo perché, spesso, portano gli stessi nomi di chi è capo di campagne antimafia o di chi investe danaro in attività di denuncia. Eccola, allora, questa Mammasantissima, questa donna o madre-cagna intenta a sfamare i suoi cuccioli, dopo averli educati, dopo aver permesso loro di studiare, chiedendo nient’altro in cambio se non la fedeltà al bacio di sangue con cui è stato stipulato il loro ingresso nella famiglia. Ancora è il rovesciamento del rito, del folclore che permette alla Dante di tessere i fili del suo discorso impegnato: il rito è quello dell’affiliazione, in cui ci si fa il segno della croce nel nome del padre, del figlio, della Madre e dello spirito santo, al quale si unisce la lotta alla scalata gerarchica al potere, le cui regole vengono sconvolte e ribaltate. La mise en scene è una vera orgia di immagini che scandiscono l’importanza di questo rito-banchetto, la cui tavola non è altro che il grande ventre di Mammasantissima, di cui gli affiliati sono chiamati a dividerne il corpo e il sangue, ribaltando il rito eucaristico.
La piece della Dante ha un ritmo incalzante; culmina con un'immagine forte: i cani mafiosi, dopo aver appreso gli insegnamenti della Madre, si masturbano davanti alla visione della cartina di un'Italia capovolta, con la Sicilia al nord e al centro dell’economia e della politica di un paese smembrato. Il rovesciamento ultimo consiste nella negazione, da parte della madre-cagna, di se stessa, per permettere ai figli di mescolarsi alla gente comune, e rendere, in tal modo, la violenza, il male silenziosi e invisibili agli occhi dei tanti Liborio Paglino, che non riescono a vedere nulla.
Cani di bancata sono, a Palermo, i randagi che si nutrono degli avanzi dei banconi del mercato, in senso lato i parassiti, per Emma Dante i mafiosi”.

Maria Pina Sestili

Spegnere insieme 39 candeline

IL FESTINO, Emma Dante

Ancora una volta Emma Dante riesce a stupire il suo pubblico con ” Il Festino”, un monologo incentrato su due fratelli gemelli, entrambi molto malati: uno nel corpo, l’altro nella mente. Entrambi costretti a vivere nella menzogna e nell’indifferenza di una rigida società, che non lascia spazio alle diversità e che porta all’autodistruzione.

Inetto, solo, tormentato e malato: così si presenta Paride, il protagonista dell’ultimo capolavoro della regista palermitana Emma Dante, “Il Festino”, che affida la sua interpretazione a Gaetano Bruno, suo fedele collaboratore e storico componente della compagnia Sud Costa Occidentale.
E’il trentanovesimo compleanno di Paride e il palco dell’ITC di San Lazzaro è addobbato per la grande festa: palloncini e festoni colorati sono appesi ovunque eppure, sin dai primi istanti, non si respira un clima di festa. Non ci sono invitati e il festeggiato è voltato di spalle con indosso uno cappello scuro che gli copre tutto il viso, quasi non volesse mostrarsi o guardare, quasi fosse infastidito dalla presenza dello spettatore. Si avverte un clima piuttosto teso, che materializza lo stato d’animo dell’attore in scena.
Dopo un lungo momento di esitazione, Paride decide in un silenzio disarmante che ci lascia ancora una volta con il fiato sospeso, di guardarci finalmente in faccia e di mostrarsi per quello che è realmente.
Ci racconta di Iacopo, suo fratello gemello, morto in un incidente, con il quale Paride vive in simbiosi nel suo mondo immaginario.
Due fratelli identici, interscambiabili ed entrambi malati: uno nella mente, l’altro nelle gambe.
“Io sono il corpo, mio fratello la mente” afferma. Ci racconta di tutti i loro scherzi fatti e di tutte le volte che la mamma lo ha punito chiudendolo a chiave dentro lo sgabuzzino buio.
Un luogo che inizialmente intimorisce Paride, ma dove in seguito egli stesso impara a vivere una vita parallela, sognando e stringendo amicizia con le scope che dividono quello spazio chiuso con lui. Loro diventano le uniche amiche fedeli con cui confidarsi.
Durante il suo monologo Paride è pienamente consapevole della sua malattia e solitudine: infatti, più volte, indossa il nero cappello e si volta di spalle, quasi in segno di sottomissione e di vergogna per la sua condizione.
Ha paura che anche il pubblico lo rifiuti e si prenda gioco di lui, mentre nei nostri occhi c’è solo tanta compassione e affetto. Vorremmo aiutarlo, ma rimaniamo testimoni immobili del suo dramma.
Ecco finalmente il momento di aprire i regali: al centro del palco, un grosso pacco rosso lo attende. E’ da parte di suo padre ed è accompagnato da una lettera di auguri che Paride ci legge.
Tanti ricordi riaffiorano da quel momento in avanti e il suo senso di disagio e di rabbia si fanno sempre più forti.
Il padre vorrebbe impossessarsi della pensione di invalidità del fratello ma non conosce la verità, ossia che Iacopo è morto e che per una vita intera ha aspettato invano il suo ritorno a casa.
Ad un certo punto Paride scoppia in lacrime; non riesce più, e non vuole più, vivere dentro il suo mondo perché la delusione e il dolore sono ormai insopportabili e anche il suo mondo immaginario è diventato troppo difficile: decide allora che quel compleanno sarà l’ultimo che festeggerà.
Apre il regalo e trova otto scope colorate.
Quel palco si trasforma improvvisamente in quel vecchio sgabuzzino buio, ma questa volta non ci sarà nessuno ad aprire la porta. Le sue certezze divengono realtà, la fine di un incubo è ormai vicina.

Anima le scope, dà loro vita come faceva da bambino, balla con loro un cha cha cha, cerca di far camminare il fratello e di fare un ultimo ballo anche con lui poi,con desolazione e ferma decisione, inonda la torta di Ketchup e vi ci affonda la bocca.
Tutte le sue paure si spengono con quelle ultime trentanove candeline.
Un soliloquio perfetto che invita a riflettere e a ribellarsi a qualsiasi forma di violenza e di soprusi.
Uno spettacolo che vale veramente la pena vedere.

Alessandra Consonni

mercoledì 27 febbraio 2008

Dalla conferenza stampa per il ventennale de La Soffitta

La Soffitta: perennemente alla ricerca del nuovo nelle arti

Dal 26 gennaio al 13 maggio si sviluppa la ricca stagione per festeggiare i vent’anni del centro “La Soffitta”, luogo universitario ben integrato all’interno degli spazi della città. Da Giuseppina La Face, a Marco De Marinis, al rettore Calzolari, voci soddisfatte dell’operato passato, e sguardi rivolti alla nuova programmazione

« E’ il luogo dove si sono esercitati in forma critica l’analisi dei nuovi linguaggi teatrali, musicali, cinematografici con il compito innanzi tutto di costituire i laboratori di esperienza per i nostri studenti, e contemporaneamente come luogo di fruizione della cultura nascente da parte della più ampia cittadinanza», con queste parole si è aperta la presentazione della stagione del ventennale de “La Soffitta”.
La ricca stagione 2008 celebra il traguardo dei vent’anni e si dipana in quattro ambiti artistici differenti: teatrale, coreutico, musicale e cinematografico, ma con obbiettivi comuni. Il Centro “La Soffitta”, attività unica nel suo genere, fa parte del Dipartimento di Musica e Spettacolo e all’interno di una ricerca storico scientifica, filologica e critica, rappresenta la pratica applicata. Così Giuseppina La Face, direttore del dipartimento MUSPE, riassume brevemente la natura di questo centro, legato all’Ateneo bolognese, ma aperto all’intera cittadinanza.
Marco De Marinis, responsabile scientifico del centro, ha ringraziato l’Ateneo Bolognese, Unibo Cultura, la fondazione Cassa di Risparmio di Bologna, e la fondazione Del Monte di Bologna e Ravenna, grazie ai quali sono stati superati i problemi finanziari, legati alla gestione dei laboratori di via Azzo Gardino.
La parte teatrale della stagione è costruita su due importanti progetti pilota. Il primo, l’inaugurazione della stagione, è dedicato al “Premio Scenario”, il quale propone otto spettacoli per un teatro futuro, i cui protagonisti sono artisti emergenti. Ogni due anni, infatti, vengono selezionati progetti teatrali e performativi dall’intero territorio nazionale. Il secondo riguardante le scuole di teatro, mette a confronto tre esperienze concernenti la formazione dell’attore oggi, attraverso spettacoli, seminari, incontri e una tavola rotonda finale che riunirà i responsabili delle tre esperienze: “Non Scuola” di Marco Martinelli legata al Teatro delle Albe, la “Stoa” e “Officina Valdoca”
Tutto questo è stato reso possibile grazie all’apporto finanziario non solo dell’Università ma anche dell’ Arena del Sole e del teatro comunale A. Testoni di Casalecchio, mettendo in luce la volontà di dare spazio alle realtà cittadine. Non sono inoltre trascurabili la tavola rotonda dedicata a “Leo De Berardinis” a cura di Claudio Meldolesi, “Il teatro dei Libri” che prevede la presentazione di testi e materiali video e infine il progetto in collaborazione con “La Casa dei Risvegli”, il quale propone l’esperienza nata all’interno di un laboratorio permanente che lavora con persone uscite dal coma. Il progetto di danza, che fa capo a Eugenia Casini Ropa, si focalizza sulla coppia di danzatori-coreografi Michele Abbondanza e Antonella Bretoni. La Soffitta, seguendo la logica dei dipartimenti con cui si struttura il DMS di Bologna presenta una sezione di musica e di cinema; otto concerti che accostano di musicisti in carriera e giovani emergenti laureati e quattro progetti per il cinema, realizzati in collaborazione con la Cineteca del comune di Bologna, che vanno dal cinema italiano delle origini, a quello classico giapponese per concludersi con il cinema sperimentale contemporaneo.
Angelo Guglielmi, assessore alla cultura e ai rapporti con l’università del comune di Bologna ha dato una sintetica e originale descrizione de “La Soffitta”, mettendo in luce l’importanza dei laboratori di via Azzo Gardino come centro di produzione integrata tra il DMS, la Cineteca di Bologna e il museo d’arte contemporanea MAMbo, in una prospettiva internazionale.

di Sami Karbik

Marco De Marinis

Tra teoria e pratica: vent’anni di un’officina teatrale

Una chiacchierata con il professor Marco De Marinis, responsabile scientifico del centro teatrale “La Soffitta”, che quest’anno festeggia vent’anni di attività, sui suoi progetti, sul cambiamento degli studenti negli ultimi dieci anni.

In vent’anni di attività, quali sono stati i momenti più significativi della “Soffitta”?
Quando La Soffitta è stata inaugurata, io ero ancora pendolare. Parliamo del 1988. In quegli anni una congrua collaborazione ci è stata fornita da Fabrizio Cruciani, grande storico del teatro prematuramente scomparso, dal critico letterario e poeta Alfredo Giuliani, dal drammaturgo e regista Giuliano Scabia, che proprio l’anno scorso ha lasciato i ruoli universitari, dopo trentatrè anni di insegnamento ininterrotto, da Franco Ruffini, Claudio Meldolesi, uno dei maggiori storici del teatro italiani, Eugenia Casini Ropa, benemerita pioniera dell’introduzione delle discipline della danza all’università, Renato Carpentieri - ora attore famoso - il quale tra l’altro scrisse un testo sul grande attore teatrale dell’Ottocento Gustavo Modena. Negli anni La Soffitta è cosi divenuta una struttura rilevante e riconosciuta all’interno della vita culturale universitaria e cittadina, mantenendo un lavoro creativo costante nel tempo. Negli angusti spazi di Via D’Azeglio 45, concessi dalla provincia di Bologna, durante la settimana erano tenute le lezioni mentre il venerdì si allestivano gli spettacoli, una vera ‘officina teatrale’.
Le cose cambiarono quando lo spazio di via D’Azeglio fu dichiarato inagibile, a causa dei problemi di statica dell’edificio nel 1996. Seguirono anni di nomadismo, non avendo allora La Soffitta un reale “spazio” come attività correlata alla vita della città, ma grazie all’intuito di Lamberto Trezzini e Cristina Valenti si cercò la collaborazione degli altri teatri bolognesi.
Il ridursi ulteriore delle risorse ed il ripensamento di una propria identità, portò La Soffitta ad operare scelte sempre più precise, a formulare un cartellone decisamente innovativo rispetto a quello degli altri teatri: decidemmo di interagire attivamente, a tu per tu, con gli artisti, con i registi più in voga, con gli autori sottolineando vivamente la dimensione progettuale. Siamo nella seconda metà degli anni ’90. La Soffitta era lo strumento attraverso il quale il DAMS poteva dimostrare tutte le sue qualità, e lo faceva decidendo di investire sui giovani. Si puntò su progetti che mettevano al centro del lavoro il corpo come mezzo per arrivare al sé.
La Soffitta si è affermata come uno dei centri teatrali più importanti della regione Emilia Romagna, divenendo un osservatorio critico permanente sui nuovi linguaggi della scena teatrale, musicale e cinematografica.
Non dobbiamo mai dimenticare che la Soffitta non è un centro teatrale qualsiasi ma una realtà universitaria: ciò vuol dire che essa deve istituzionalmente prefiggersi obiettivi che siano innanzitutto coerenti con la sua identità universitaria: in primo luogo compiti didattico scientifici di divulgazione e diffusione della cultura teatrale, cinematografica e musicale, soprattutto nelle sue espressioni più rigorose, innovative e, magari, meno note. Si tratta di compiti che noi assumiamo (certamente non da oggi) in primo luogo nei confronti dei nostri referenti naturali, gli studenti, ma anche verso l’intera comunità cittadina e, più ampiamente, verso tutti coloro che a Bologna, e fuori, siano interessati a incontri significativi con esperienze artistiche e culturali di qualità nei campi del teatro, della musica, del cinema. La Soffitta si compone prevalentemente di progetti a basso costo ma ad alta intensità artistico-culturale e tuttavia non privi di un sicuro appeal spettacolare.

Cosa è cambiato da quando il dipartimento si è trasferito in via Azzo Gardino?
L’acquisizione degli spazi in via Azzo Gardino è avvenuta nel 2002, dopo un bel lavoro di restauro. Sicuramente il fatto che possediamo un solo spazio per i vari e numerosi laboratori ci mette di fronte a una certa difficoltà: basti pensare che prima le stanze per i laboratori erano ben tre, due in via Barberia e uno in via D’Azzeglio.
Abbiamo comunque vinto la battaglia per i finanziamenti; da pochi mesi, infatti, l’Ateneo ci fornisce un budget indispensabile ai costi di gestione dei laboratori.

L’Università fa tesoro delle attività portate avanti dal centro?
Da quando il DAMS apparve, molti erano fortemente scettici sulla sua utilità; gli studenti del DAMS erano i ‘fricchettoni’ dell’Università. Fortunatamente questa non è stata la reazione del Rettorato (sia con il Rettore Fabio Roversi Monaco, sia con l’attuale rettore Pier Ugo Calzolari, i quali sono sempre stati sensibili e vicini alle varie problematiche del mondo del DAMS). La programmazione di quest’anno costituisce ancora una volta una testimonianza della vocazione del Centro e del Dipartimento di presentare programmi che si svolgono nel solco della contemporaneità e di contributi costanti in direzione dell’ ‘altra scena’. Il nostro programma ne è una attestazione indubbia proprio nell’intreccio, all’interno di molti dei progetti presentati, fra cinema, teatro, multimedialità e persino nell’offerta musicale.

Il progetto Interscenario, momento significativo nelle attività della stagione 2008, mette in relazione il centro La Soffitta con altri teatri cittadini. In che chiave si pone tale progetto nel futuro della Soffitta?
Il progetto Interscenario, nato nella metà degli anni Novanta, si avvale della collaborazione dei tre soci di Scenario presenti nel territorio bolognese: Centro La Soffitta, Compagnia del Teatro dell’Argine e Teatri di Vita, a cui si unisce la collaborazione dell’ Emilia Romagna Teatro – Teatro Testoni di Casalecchio di Reno.
Il programma 2008 comprende quattordici progetti che offrono un'ampia panoramica sul Premio Scenario, La bottega dei capelli lettura scenica per il Giorno della Memoria dalla Shoah, Scuole di teatro: la formazione dell'attore oggi. Tre esempi eretici. Poi progetti dedicati a particolari compagnie, con spettacolo e incontro con gli artisti: Teatro delle Albe; Scena verticale e Emma Dante.
Il programma teatrale si completa con altri progetti tematici: Il teatro dei libri; Per Leo De Berardinis, di nuovo; Il Teatro dei Risvegli per presentare gli ultimi due spettacoli della compagnia Gli Amici di Luca. Chiude il programma Soffitta 2008, un evento speciale per il Ventennale: Incontro con Pippo Delbono .
Vi è inoltre in programma un progetto di DANZA focalizzato sulla coppia di danzatori-coreografi Michele Abbondanza e Antonella Bertoni.
Interscenario esalta l’attitudine della Soffitta a teatro sociale. La casa dei Risvegli, ad esempio, adopera il teatro come mezzo terapeutico: sulla scena vi sono sia attori reali sia i “risvegliati”, cioè le persone con esiti di coma nei diversi stati della degenza. Altro momento importante tra le attività di quest’anno è senza dubbio la formazione dell’attore. Attraverso l’esame di tre esempi eretici: la non-scuola di Marco Martinelli del Teatro delle Albe, la Stoa della Socìetas Raffaello Sanzio e l’Officina Valdoca del Teatro Valdoca, si vogliono fornire agli studenti incontri e seminari attraverso i quali capire come si forma un vero attore di teatro.

Cosa ha appreso, in questi anni, dalla collaborazione con gli artisti?
Un grande arricchimento come studioso. Bisogna fare sicuramente una grande distinzione tra teoria e pratica, tra il critico di teatro, lo studioso e l’artista. Lo studioso non può fare a meno del rapporto diretto tra la teoria e la pratica, del rapporto diretto con gli artisti, dello ‘stare dietro le quinte’. Teatro è laboratorio pratico. È questo che arricchisce lo studioso: condividere con gli artisti di teatro la loro vita. Sono membro permanente dell’ISTA, la scuola di Eugenio Barba con cui collaboro dagli anni ’90. Da tutte queste esperienze ho portato a casa una sensibilità che mi ha aiutato molto nel mio lavoro.

Come sono cambiati i giovani negli ultimi vent’anni?
Al giorno d’oggi, c’è una decadenza di fondo nel contesto antropologico, sociale, culturale, civile, politico dell’Italia. Vi è una palese decadenza dei media televisivi e della tv-qualità: prodotti pensati solo per il consumo di massa. E’ la televisione che manda messaggi poco edificanti e culturalmente scadenti. Anche l’organizzazione universitaria è cambiata molto in seguito alla riforma, con un conseguente abbassamento dal punto di vista qualitativo per quanto riguarda le lauree triennali, e con studenti però di un buon livello culturale nella specialistica; se i docenti fossero un po’ più severi avrebbero sicuramente molte più soddisfazioni. Il mio bilancio in riferimento a quest’anno è tuttavia positivo: ho apprezzato studenti con buone qualità e più motivati da un’attitudine personale e artistica.

Antonio Guerrera e Roberta Larosa

La stagione de La Soffitta, tra applausi e riflessioni taciute

La questione dei laboratori

Anche quest’anno il Dams propone una stagione teatrale eccellente, ma restano problemi irrisolti e taciuti. Si dimenticano i tagli futuri nei piani istituzionali, che comporteranno massicce riduzioni dei laboratori dai piani di studio. Ha davvero senso parlare di un’istituzione proiettata verso l’ innovazione e la sperimentazione? Bologna è ancora vittima di uno stato di inerziale sonnolenza?

Sono tutti d’accordo in conferenza stampa, la stagione della Soffitta è il chiaro segno di un Dams che afferma la sua unicità, offrendo all’intera cittadinanza un programma di qualità. Un Dams che oramai, risolti i problemi economici, punta sui giovani: “non c’è niente da fare, l’innovazione viene da loro, occorre incentivarli”, afferma il direttore del Dipartimento, la professoressa La Face. E improvvisamente appare tutto meraviglioso, un ottimismo velato di un ‘sottile’ strato di cecità (o se preferiamo falsità) colora il clima nella sala del rettorato. Si parla di grandi servizi per gli studenti, di spazi per la sperimentazione, di poli culturali voluti dal Comune, dall’Assessore, dai presidenti vari e dai professori illustri. Spazi belli, importanti; tutti ne prendono una ‘fettina’ di merito... Ma immerse nello scontato mare di formalità, emergono riflessioni pensate e taciute. La Soffitta propone indubbiamente interessanti laboratori: quest’anno ci saranno la Societas, il teatro delle Albe, Abbondanza e Bertoni. Tuttavia, chi frequenta il Dams accusa proprio la scarsità di attività laboratoriali, in rapporto a una più che prevalente attività teorica. Da anni Barba lamenta questo rapporto impari, accusando le università italiane di preparare storici e teorici che non hanno dimestichezza con la pratica scenica. Non si sta mettendo in discussione l’eccellente programmazione della Soffitta, sia chiaro, tanto meno l’importanza, la necessità del guardare teatro. Pochi e brevi laboratori però non sono sufficienti, ancor più tenendo in considerazione il richiamo del Dams bolognese di molti potenziali artisti, provenienti da tutta la penisola, ragazzi costretti a integrare le attività pratiche fuori dal contesto universitario. E questo comporta ingenti spese che risultano talvolta insostenibili, pur se necessarie.
Ci si dimentica che per il prossimo anno sono previsti massicci tagli ai laboratori istituzionali all’interno dei piani di studio, senza contare la totale scomparsa dell’indirizzo coreutico dalla laurea specialistica, che avrebbe potuto invece inaugurare una florida stagione italiana per i Dance studies. Questo è un fatto gravissimo. Ancora, ci si vanta di uno spazio enorme e senza dubbio molto funzionale, quello di via Azzo Gardino: prima di arrivare in questa sede, gli spazi laboratoriali non erano forse maggiori? Probabilmente occorrerebbero altri luoghi, meno grandiosi, ma veramente a disposizione degli studenti e, perché no, autogestiti. Ci si chiede allora se ci sia realmente l’idea di un’istituzione proiettata verso la sperimentazione e la formazione, che lasci ai giovani l’iniziativa e che offra loro gli strumenti per metterla in atto.
Il problema vero nel panorama teatrale bolognese non è tanto la mancanza di buone programmazioni, quanto uno stato di inerziale sonnolenza sotto l’aspetto della formazione teatrale e del sostegno ai giovani artisti. Pensiamo alla sicurezza economica di diversi festival di ricerca, questa è spesso assicurata troppo tardi, quando oramai la programmazione è compromessa. La maggior parte degli artisti bolognesi che cerca di fare sperimentazione, deve districarsi lungo un percorso ad ostacoli, rischiando generalmente di non arrivare a fine mese. E questo è grave, questa è una vera questione sulla quale riflettere.

Paola Stella Minni

Vent'anni de La Soffitta

Il “come eravamo” di un osservatorio critico

Nella ricorrenza del ventennale de La Soffitta i primi responsabili del centro, Cristina Valenti e Lamberto Trezzini, hanno ripercorso il cammino storico di questo centro culturale che oggi si afferma come uno dei più importanti di Bologna e provincia. Dopo un rodaggio iniziale La Soffitta approda finalmente a un periodo fiorente offendo un cartellone ricco di eventi e incontri.

Nella ricorrenza del ventennale de “La Soffitta” Lamberto Trezzini, primo responsabile scientifico del centro, ci racconta con nostalgia le origini di quest’avventura, iniziata nel maggio del 1988 in occasione delle celebrazioni legate al IX Centenario dell’Alma Mater. Il 18 ottobre dello stesso anno avveniva l’intesa tra l’amministrazione provinciale e l’Università di Bologna: l’obiettivo comune era dare spazio al nuovo sulle basi della tradizione storica, incrementando la ricerca culturale e scientifica. Negli anni La Soffitta è cosi divenuta una struttura rilevante e riconosciuta all’interno della vita culturale universitaria e cittadina, mantenendo un lavoro creativo costante nel tempo. Negli angusti spazi di via D’Azeglio 45, concessi dalla provincia di Bologna, come ricorda Cristina Valenti, durante la settimana erano tenute le lezioni, sia in sala sia nel foyer, mentre il venerdì si allestivano gli spettacoli, una vera “officina teatrale”.
Le vicissitudini non mancarono quando lo spazio di via D’Azeglio fu dichiarato pericolante, a causa dei problemi di statica dell’edificio, mettendo in strada baracca e burattini nel 1996. Seguirono anni di nomadismo, i quali fortunatamente non danneggiarono l’attività grazie all’ospitalità di diversi teatri cittadini; particolarmente importante fu la collaborazione dell’Arena del Sole che appoggiò La Soffitta insieme ad altri prestigiosi teatri.
Dal 2003 La Soffitta trova finalmente uno spazio stabile nei laboratori DAMS di via Azzo Gardino 65, spazi multifunzionali gestiti dal DAMS dell’Università di Bologna, attualmente sotto la direzione di Giuseppina La Face. In questo luogo si sono intrecciati, negli ultimi anni, attività di ricerca, collaborazioni con il centro CIMES, momenti laboratoriali, e corsi di studio nelle quattro sezioni in cui i programmi della soffitta si articolano: teatro, danza, cinema, musica.
In questi anni La Soffitta ha promosso giovani artisti, realtà marginali ed emergenti, così come ha ospitato autorevoli presenze nazionali e internazionali cercando sempre di coniugare la sensibilità verso il nuovo con la valorizzazione e l’approfondimento della memoria dell’eredità storica.
Il Centro si è affermato come uno dei fulcri teatrali più importanti della Regione Emilia Romagna. Alla domanda “cos’è oggi La Soffitta?” Marco De Marinis risponde: «è un osservatorio critico permanente sui nuovi linguaggi della scena teatrale, musicale e cinematografica; La Soffitta si rivolge all’intera città, a tutti gli spettatori curiosi, inquieti, in cerca di esperienze teatrali che gli altri cartelloni bolognesi difficilmente consentono di fare».

Valentina Arena

mercoledì 20 febbraio 2008

L'emarginazione ontologica di una terra e di una donna

DISSONORATA di Scena Verticale

Pasqualina e la sua storia di donna “dissonorata”, in una terra dove i sentimenti e le vicende umane si scontrano con le convenzioni che portano all’emarginazione. L’ultimo e premiato lavoro di Scena Verticale approda al teatro ITC di San Lazzaro

“Sungu ‘na guagliona e quannu passu mìanzu i genti agghia teni ‘a capa vasciata fa chi cuntu i petri pi ‘nterra”.
A parlarci è Pasqualina, pastorella calabrese che confida al pubblico la sua storia di ragazza tragicamente punita perché dissonorata, rimasta incinta contravvenendo alle leggi non scritte dell’onore e della dignità. Pudicamente seduta in scena, accompagnata unicamente da contrappunti musicali che scandiscono le fasi della storia o che addirittura si sostituiscono al racconto, laddove la parola non può o non vuole arrivare. Una parola che è resa dallo strettissimo dialetto calabro-lucano assai ritmica, fino a divenire dolce nenia, permettendo anche allo spettatore poco avvezzo a certe sonorità di cogliere le sfumature principali della modulazione di toni e significati.
Eppure sotto quel modesto vestitino scorgiamo abiti maschili, come a ricordarci che sono memorie trasmesse da un uomo, uno straordinario Saverio La Ruina, capace di tradurre una vicenda femminile che parla di storie universali in una partitura di gesti assorbiti eppure tanto evocativi. Non a caso vince il premio Ubu sia come miglior attore che come miglior testo italiano, evidenziando in tal modo la peculiarità della ricerca drammaturgia di Scena Verticale, volta a dare grande dignità a tutte le sfumature del proprio dialetto, lingua di una terra tanto amata quanto difficile da vivere, allora come adesso, soprattutto per chi lotta da tempo per fare e far conoscere lì del buon teatro.
Gracias a la vida – dolcissimo brano con cui si conclude lo spettacolo - è allora anche un ringraziamento per chi continua a credere in una possibile rivincita per questa terra ‘ontologicamente emarginata’.

Elisa Cuciniello

Buon compleanno Paride! Buon compleanno Soffitta!

IL FESTINO di Emma Dante e il VENTENNALE DELLA SOFFITTA

"Il Festino" di Emma Dante apre la stagione della Soffitta 2008, approdando il 26 gennaio all'ITC di San Lazzaro, all'interno del progetto Interscenario. Si tratta di un soliloquio scritto e diretto dalla regista palermitana, uno straordinario lavoro affidato all'interpretazione di Gaetano Bruno, fedele collaboratore della Dante e componente storico della compagnia Sud Costa Occidentale, vincitrice del Premio Scenario nel 2001. Siamo alla festa di Paride; siamo di fronte alla solitudine di un uomo che non è riuscito a crescere. Due compleanni dunque, quello di Paride e quello della Soffitta, che con la prima de "Il Festino"2008 festeggia il suo ventesimo anniversario.


Un baule pieno di giochi, di palloncini, di lucine colorate e di tante scope: siamo alla festa di Paride e del suo gemello Iacopo. Festeggiando il suo trentanovesimo compleanno, Paride ripercorre la sua vita, i sensi di colpa di un uomo che non è riuscito a crescere, di un ragazzo che la famiglia non ha voluto accettare perché mentalmente debole e “aggrippato”.
Paride prova a sciogliere i nodi della matassa della sua vita, o per lo meno a mostrarli, come se questo potesse liberarlo dal nodo più difficile: il fratello paralizzato dalla nascita. Iacopo, alter ego di Paride, non c’è più e forse non c’è mai stato; le loro disabilità si completano. Iacopo è morto, ma la sua presenza è forte nelle parole, nelle sembianze e nel ricordo di Paride. Una schiena nuda e sudata ci narra l’episodio di una morte inaspettata, avvenuta in un momento di gioia, in un abbraccio. E così si aggiunge un altro nodo, un altro peso da caricare: Paride sa trovare il baricentro di tutti gli oggetti e farli stare in piedi, con Iacopo non c’è mai riuscito.
Chiuso nello sgabuzzino trova la sua vera famiglia e i suoi veri amici, sono le stesse scope con cui balla scatenato alla festa. Nella solitudine sfoga i suoi sensi di colpa e il suo amore per Iacopo, il dolore per l’abbandono della famiglia, per una società che non l’ha voluto accogliere. Con la sua vocina stridula, il suo sudore, la sua camminata sbilenca, Paride legge una lettera infame del padre, che vorrebbe riuscire a spillare la pensione d’invalidità del fratello. Ma lui è deciso, questo sarà il suo ultimo compleanno e vuole goderselo fino in fondo, ballando nudo e divorando la sua torta ricoperta di ketchup.
Spiamo la festa di Paride, forse vorremmo essere lì con lui per dirgli che almeno noi ci siamo; salvarlo dalla sua ferma volontà suicida; salvarci, perché anche noi siamo parte della stessa società che lo ha escluso, una società che ha paura dello stigma, della diversità.
Ci limitiamo ad un applauso interminabile, un segno di ringraziamento al lavoro di Emma Dante, alla difficile interpretazione di Gaetano Bruno, a Paride. Con “Il Festino” Emma Dante ci offre un’ennesima denuncia dei meccanismi che regolano la società, quel “dare per scontato” che costituisce la nostra cultura; metterli in scena significa scardinarli, decostruirli.


Paola Stella Minni

Intervista a Scena Verticale

INERVISTA A SCENA VERTICALE,

Scena Verticale è una compagnia nata nel 1992 a Castrovillari (CS) grazie all'incontro di Saverio La Ruina e Dario De Luca, con l'inserimento nel 2001 di Settimio Pisano. Da sempre la loro ricerca è volta a portare una ventata di modernità nella difficile realtà calabrese sia con un lavoro teatrale che innesta su valori e simboli dialettali le esigenze e le problematiche del contemporaneo, sia con un'opera di promozione di nuovi linguaggi scenici attraverso l'ideazione e l'organizzazione del festival Primavera dei teatri. In occasione della presentazione dello spettacolo Dissonorata abbiamo chiesto a Dario De Luca di parlarci della loro esperienza, con particolare riferimento a quest'ultimo lavoro grazie al quale hanno meritato i premi Ubu 2007 come migliore attore (a Saverio La Ruina) e come migliore novità italiana.

VINCERE, BISSANDO, IL PREMIO UBU CON UNO SPETTACOLO IN UNO STRETTISSIMO QUANTO MUSICALE DIALETTO CALABRESE. RIVINCITA DELLA DRAMMATURGIA MERIDIONALE?
Non credo si tratti di una rivincita della drammaturgia meridionale, quanto piuttosto di un premio che arriva a una costanza da parte di Scena Verticale di provare a 'imporre' una lingua non solitamente praticata nel teatro italiano, anzi spesso motivo di pudore e vergogna per i teatranti calabresi. Scena Verticale ha pensato, fin dall'inizio del suo viaggio nel teatro, che, invece, il proprio dialetto potesse essere una lingua di forte espressività e di grande musicalità, lontana da quella usata dai cabarettisti e anche abbastanza specifica perché deriva dalle origini calabro-lucane di Saverio La Ruina e si avvicina per alcuni dittonghi anche al cosentino. L’uso del dialetto si è modificato di volta in volta nei diversi spettacoli, fino a Dissonorata in cui prevale un dialetto molto arcaico. In La stanza della memoria si tratta dell’idioma di un’area geografica molto vasta, non riferibile a un territorio specifico ma alla Calabria in generale. In De-viados la transessuale protagonista si esprime nel dialetto cosentino e i rapporti – quindi anche i dialoghi - con i suoi genitori sono costruiti come una partitura musicale, tentando di restituire attraverso le sfumature dei suoni ad esempio la dolcezza materna inserendo parole in labiale o lo scontro con il padre con parole gutturali, che restituiscono proprio musicalmente l'idea della cattiveria, della mancata accettazione di una realtà dei fatti.
In Kitsch Amlet il dialetto utilizzato risulta invece molto contaminato, traendo spunto dallo slang dei giovani, quindi ‘imbastardito’ dal linguaggio dei nuova media e per questo a volte anche molto divertente e di grande impatto.
In effetti, provando a fare un affresco della situazione teatrale italiana, ci si accorge subito dello strapotere drammaturgico di un meridione che usa coraggiosamente la sua lingua, che non è più solo quella napoletana che ha sempre vinto su tutti, ma ritorna di grande 'moda' anche il siciliano, affiora il calabrese con Suriano, con Scena Verticale , e ci sono anche delle situazioni pugliesi molto forti.

LA GRANDISSIMA PRESENZA DI GIOVANI AUTORI MERIDIONALI CHE HANNO FATTO DEL DIALETTISMO O COMUNQUE DELLA APPARTENENZA TERRITORIALE UNA NUOVA POSIZIONE DRAMMATURGICA, È DA CONSIDERARE PIU' UN FENOMENO O UNA NUOVA ESIGENZA DI FUNZIONE, DI COMPETENZE DEL TEATRO?
Secondo me è un fenomeno che deriva dall'esigenza dei singoli artisti di trovare la propria strada. È come se in questo momento ci sia, non tanto e non solo un ritorno alle radici, ma un modo più vero di esprimere la propria arte, il proprio pensiero teatrale e il modo di stare in scena riappropriandosi anche della proprio lingua. Da parte nostra e di molti teatranti dell'ultima generazione, c'è anche il piacere della verità in scena, una verità che si ritrova nelle sonorità della terra d’origine, dell’ infanzia. Poi tutto questo diventa anche fenomeno culturale quando critici e studiosi danno forma agli eventi storici incanalandoli ed etichettandoli, ma indipendentemente dalla volontà degli artisti.
D’altra parte è anche vero che la tradizione teatrale italiana è fondata proprio sull’uso del dialetto, basti pensare a Eduardo, allo stesso Pirandello che inizia il suo percorso scrivendo in siciliano, testimoni insieme a molti altri delle grandi possibilità offerte da questa tradizione di ‘lingue italiane’.

QUAL E’ L'IMPORTANZA DEL FESTIVAL 'PRIMAVERA DEI TEATRI' IN UNA REALTÀ TEATRALE COMPLESSA ED EMARGINATA COME QUELLA CALABRESE?
Il festival Primavera dei teatri è nato nel 1999 ed è stato interrotto solo nel 2004, quando per i soliti problemi istituzionali non si è riusciti ad organizzare un’edizione soddisfacente. Tali problemi sono di fatto tutt’ora presenti e nonostante il festival sia cresciuto e sia diventato punto di riferimento per le giovani generazioni, per gli operatori teatrali del meridione, per le compagnie che intanto sono nate in Calabria, nonostante il pubblico in aumento, l'attenzione degli operatori e dei critici, le istituzioni rimangono sempre poco attente, miopi e superficiali, anche quando è già stato promesso un sostegno.
Fortunatamente nel nostro caso è la stessa compagnia che lavora nel festival quindi, anche quando la risposta per un finanziamento arriva davvero ritardo, in tempi scoraggianti per altri, riusciamo comunque a ottimizzare il lavoro anche in un periodo breve, soprattutto perché il nostro pensiero rimane vivo tutto l’anno tenendoci costantemente informati sulle novità e tessendo fili e rapporti con la speranza di ottenere poi appoggi finanziari. Ciò che dispiace e fa male è il trovarsi sempre alla mercé di regione e istituzioni poco attente, che non permettono di lavorare con la serenità che ci si può augurare.
Nonostante tutto questo il festival rimane per noi una roccaforte solidissima con cui siamo riusciti a creare qualcosa di davvero importante nella nostra terra affrontando la delicata sfida di portare il nuovo, il contemporaneo in un ambiente sempre fuori da certi circuiti. Questa scommessa sembra vinta o, perlomeno, in questo momento riusciamo a tenerla alta anche osando e lasciando ampio spazio alle nuove proposte, alle giovani compagnie, arrivando anche ad ospitare nomi poco noti che poi tornano da grandi star, pur nella loro straordinaria semplicità: mi riferisco ad esempio ad Ascanio Celestini, o ai Motus per i quali Castrovillari è tutt’ora l’unico posto della Calabria in cui si sono fatti conoscere, anche grazie ai nostri laboratori. Parte fondamentale della sfida di Primavera dei teatri è stata infatti la scelta di creare dei laboratori, inizialmente incentrati esclusivamente sul lavoro dell’attore, in modo da stabilire un rapporto molto stretto fra giovani del luogo e le compagnie che presentavano i loro spettacoli all’interno del festival, dando vita a una fucina per le nuove generazioni e a un piccolo tessuto intorno al festival che continua a rinnovarsi ogni anno, anche con proposte diverse, parallele che vanno dalla fotografia di scena alla promozione del teatro sul web.
Determinante per il nostro lavoro è infatti creare un vero e proprio sistema teatrale intorno alla nostra attività perché solo questo, nella forma del festival, delle attenzioni da parte degli operatori, degli studiosi e dei docenti universitari, può proteggere ciò che a fatica riusciamo a creare.

TECNICAMENTE 'DISSONORATA' È UN MONOLOGO, UNA STRUTTURA DI CUI OGGI SI FA MOLTO ABUSO, NEL SENSO CHE A VOLTE VIENE CONFUSA CON LA PERFORMANCE CHE NON PROVIENE DA UNA ELEBORAZIONE DRAMMATICA PROPRIAMENTE DETTA. PER QUANTO RIGUADA 'DISSONORATA' SI PARLA DI UN MONOLOGO IN QUANTO ESIGENZA STRUTTURALE E DI SIGNIFICATO, OPPURE HA AL SUO INTERNO UNA MATERIA ANCORA PIU' COMPLESSA IN CUI SI ESPLICITANO LE FUNZIONI DRAMMATURGICHE , QUINDI CHE VANNO AL DI LA' DELLA STRUTTURA MONOLOGO?
Dissonorata nasce spontaneamente come monologo. In parte si tratta anche di una scrittura ‘a tavolino’, con una lingua che ci appartiene al punto tale che non diventa mai artificiosa e con una costruzione che comunque risente sempre enormemente della partitura, come d’altronde è avvenuto finora per tutti i nostri testi. Ogni nuovo lavoro è sempre pensato e poi subito ‘masticato’ sulla scena. Questo fa comprendere lo scarto fra il lavoro di Saverio La Ruina per Dissonorata e quello dei numerosi narratori italiani che sono proliferati negli ultimi tempi: Saverio non è né un narratore né un performer, dal momento che, costruendo il personaggio di Pasqualina, non racconta da esterno e da estraneo cosa è accaduto a questa donna-pastorella calabrese, ma incarna interamente. Il premio Ubu deriva quindi proprio dalla straordinaria prova di attorialità e non di affabulatore sempre uguale a se stesso: quando stasera Saverio calcherà la scena vi basteranno pochi minuti per dimenticare che chi vi parla è un uomo.

Elisa Cuciniello e Maria Cristina Sarò

Intervista a Emma Dante

EMMA DANTE: INTORNO, DENTRO E FUORI PALERMO.


In riferimento a “Carnezzeria. Trilogia della famiglia siciliana”, lei mette in vita la famiglia, ventre claustrofobico per individui armati di silenzio alla conquista della terra madre. Ma “ ‘a famigghia” non è forse un pretesto o un punto di partenza per analizzare le pratiche di potere o di esclusione nella nostra società, e nello specifico della realtà siciliana?

La mia risposta è si. Io mi riferisco alla famiglia universale, come istituzione, come nucleo sociale in cui si comincia a formare l’individuo. Non mi riferisco alla “ famigghia”, non c’è una partenza, non è locale la questione, è universale. Sicuramente lo spunto è quello della famiglia siciliana, ma perchè il ceto sociale che io racconto non è la borghesia, è un ceto sociale che ha a che fare con il sottoproletariato, per cui anche se avessi raccontato la famiglia bolognese avrei parlato del sottoproletariato bolognese, perchè della borghesia non mi interessa parlare e quindi famiglia in quel senso. La famiglia come comunità, nucleo sociale in cui si cominciano ad instaurare i rapporti morbosi tra persone che vivono dentro la stessa casa, che condividono le stesse paure, che si nascondono dietro le stesse mura. Questo è il senso. E poi da lì ci sono tutti i segreti che vengono svelati. Mi sembra riduttivo dire “famigghia”, anche se la lingua dei miei spettacoli è il dialetto, i miei spettacoli non sono dialettali. Uso il dialetto ma non faccio teatro popolare, quindi parlo della famiglia, ma non di una famiglia particolare, del popolo, mi rivolgo ad un’umanità che è decadente, ai resti dell’umanità. È anche una metafora, non sono personaggi reali, sono interpretati.


Nella sua drammaturgia è riscontrabile una coesistenza temporale di passato-presente-futuro. Tempo già viscerale della parola materia. La sua lingua è ritagliata in base a un valore mnemonico della parola o in base ad un’esigenza di verità del presente? E soprattutto dietro una palese difficoltà di ricezione linguistica subentra forse la necessità di una percezione altra, visiva?


La difficoltà della comprensione linguistica dei miei spettacoli non è in realtà una difficoltà. Non perchè io lavoro sulla visionarietà, io non lavoro sulla visionarietà perchè voglio fare capire agli spettatori le cose che non arrivano con la parola. La visionarietà arriva da un processo artistico creativo mio e degli attori, io non faccio mai delle scene che sono visionarie, non parto mai dalle soluzione, dall’estetica del fatto. Non mi preoccupo mai di farmi capire, non mi interessa essere capita, io preferisco non essere capita. Se questo non essere capita comporta la mia libertà assoluta. Se invece io devo trovare un compromesso nella creazione per farmi capire, io sento di non star facendo più un percorso artistico, sento di dovermi preoccupare di qualcosa che non mi riguarda, cioè la comprensione degli altri non mi riguarda e per cui la visionarietà, il fatto che non ci sia una spiegazione ai miei spettacoli, questa cosa mi rasserena, è una cosa che mi da pace, perchè non voglio spiegarlo il teatro, non voglio spiegare la mia storia, anche perchè non c’è niente da spiegare, sono suggestioni che arrivano al pubblico, che anche se non capisce, si porta a casa qualcosa e soprattutto ognuno capisce a modo suo. Il tempo. C’è una frammentazione temporale nei miei spettacoli, che è abbastanza esplosa, non si identifica mai un presente, un passato, un futuro, è tutto insieme, per cui nel momento in cui una cosa accade è già passata, è un ribaltamento continuo del tempo, per cui l’azione che viene fatta avviene nel presente, ma questo presente contiene in sé sia il passato che il futuro, non è un presente assoluto, ma è un presente che comporta degli sbalzi temporali. Per cui, ad esempio Vita mia è uno spettacolo che racconta la morte di un ragazzino però lo fa vedere ancora in vita, una vita che non riesce a morire, un tempo che è il prima e il dopo la morte contemporaneamente. Sono convinta che un corpo quando muore non muore subito, o comunque se muore un ragazzino di vent’anni, la madre non ce la fa a vederlo morto e continua a vederlo vivo. Per cui qual è il punto di vista che noi vogliamo assumere in questa storia? Io quello che mi sono presa, è quello della madre, per cui avendo io pubblico gli occhi della madre vedo questo ragazzino vivo come lo vede lei, ma lui è morto. Quindi non si capisce se questo sia un tempo della vita o un tempo della morte.


Già dal 2003 lei è direttore artistico del Rossofestival di Caltanissetta. Esperienza che anno dopo anno le ha permesso di circoscrivere un suo spazio di lavoro abbinato a una rivivificazione di un territorio che non è Palermo. È però riscontrabile la linea di ricerca che le produzioni ospiti negli anni hanno rappresentato: molta attenzione a quelle che sono le espressioni più significative soprattutto nell’area siciliana. Questa esperienza si configura come una fuga da Palermo o come l’estrema necessità di trovare “fuori” quella Palermo che è invece “dentro” al suo operare artistico quotidiano?

È più semplice. A Palermo non me l’hanno fatto fare e a Caltanissetta si. E’ questione di possibilità di fare una cosa e impossibilità di farla. In questi anni a Caltanissetta c’è stata un’amministrazione di centro-sinistra che ha creduto nel mio lavoro, ha rischiato anche di portare un certo tipo di teatro nella provincia della provincia, cioè nel cuore della provincia. Per cui quest’amministrazione locale ha scommesso nel creare questo piccolo evento, che soprattutto i primi anni ha destato dei disagi tra il pubblico che era abituato a vedere un altro tipo di teatro. È anche vero che io ho portato degli spettacoli comunque forti e non subito il pubblico è stato pronto ad accettarli, perché ci vuole anche una formazione del pubblico. Oggi, arrivati alla sesta edizione del festival il pubblico è più preparato. Ho portato Lo Studio su Medea di Antonio Latella, in cui c’è questa Medea completamente nuda dall’inizio alla fine, con questa Barbara senza vestiti addosso. Per cui portare uno spettacolo così in una città difficile da questo punto di vista è stato un azzardo che l’amministrazione locale mi ha permesso, a Palermo questa cosa non è successa.


Qual è la direzione, la linea programmatica del festival?

Ho portato mPalermu che è un mio vecchio spettacolo di 9 anni fa, che l’assessore mi ha chiesto volutamente perchè voleva fare un piccolo percorso, poichè loro credono in una progettualità. Io che sono siciliana e sto lì da sei anni con un compenso di 3400 euro (è giusto che lo dica) ho inserito nel cartellone il mio ultimo spettacolo, Il festino, che praticamente in Sicilia ha fatto soltanto Caltanissetta, non ha altre date, per cui era anche un modo per farlo vedere ai siciliani. Il festival presenta Mpalermu che è il mio primo spettacolo e Il Festino che è l’ultimo; poi ci sono il concerto di Carmen Consoli, che è un concerto in cui c’è un’attrice che recita i testi che io ho scritto, ma non è un mio spettacolo, lo spettacolo di Latella, poi andrà in scena I capitoli dell’infanzia di Davide Enia, poi Un anno con tredici lune di Fassbinder della compagnia Egumteatro, e poi Alberto Nicolino che fa un lavoro sulle zolfare, Stirru. La discesa.

La cosa più interessante non è solo la possibilità di poter creare uno spazio di lavoro ma di porre anche attenzione a quelle che sono le radici di un territorio. Il Festival prende il nome di Rosso Festival perché vi è un recupero di un drammaturgo che è Rosso di San Secondo…

Quest’anno non l’abbiamo fatto, ma l’anno scorso sono riuscita a trovare una somma all’interno del festival per produrre uno spettacolo di un testo di Rosso di San Secondo, L’ospite indesiderato, con la regia di Ninni Bruschetta. È stato il primo spettacolo prodotto dal festival, non ha girato tanto perché questo non è un festival che ha una grande organizzazione, è gestito dal comune di Caltanissetta e io faccio la direzione artistica, però purtroppo io ho anche il lavoro con la compagnia per cui non mi posso occupare di tutto, però siamo riusciti a trovare una somma all’interno di questo budget ridicolo con cui io faccio il festival per produrre questo spettacolo affidato a Nutrimenti terresti, che è questa compagnia di Ninni Bruschetta che ha fatto anche ultimamente lo spettacolo di Fava.

La sua drammaturgia nasce all’interno di un gruppo di lavoro consolidato, la compagnia Sud Costa Occidentale, una modalità di scrittura scenica, strettamente legata alla carnalità dell’attore. Come crea questa sinergia tra attori-scena-personaggi?

E’ un lavoro lungo che si sviluppa ormai da nove anni, che ha a che fare con una ricerca del metodo più che una ricerca della poetica, cioè noi stiamo cercando un metodo e questo metodo continuamente varia, trova delle strade nuove, si perde, si ritrova, ritorna sulla via maestra. La ricerca in fondo è questo: è un luogo e il tempo dove accadono le cose, e dove vengono smentite nello stesso momento in cui accadono. Per cui è difficile dire in due parole come questo si crea, si compone, perché è tutto legato, intanto moltissimo al tempo, il tempo per noi è fondamentale, perché il tempo da la qualità, cioè più noi abbiamo la possibilità di lavorare, più lungo è il tempo di lavoro, più le cose si approfondiscono chiaramente, meno provi e più superficialità rendi, è normale che è così, per cui il tempo è il fattore principale. Poi c’è un altro dato importante, che è il mio rapporto con gli attori durante le prove, cioè loro improvvisano e io gli dò i paletti, gli costruisco le situazioni, gli dò le suggestioni da fuori, però loro in compenso mettono quasi in discussione le cose che io gli dico, cioè c’è un continuo dialogo incontro-scontro sulle cose e questo crea sicuramente un cortocircuito.


Camilleri nella prefazione al suo libro, recentemente pubblicato (Carnezzeria) usa, in riferimento ai suoi testi, l’espressione –dialogo in pretta parlata palermitana-. Tale espressione però non caratterizza il suo ultimo lavoro “Il festino” in cui il soliloquio diventa una possibilità di “esserci”. Tecnicamente lo spettacolo è un monologo, lontano dalla coralità dei suoi lavori precedenti. Cosa spinge in sede di scrittura ad utilizzare questo tipo di scrittura compositiva? È un’esigenza strutturale, di significato o un canale comunicativo privilegiato all’interno di una materia ancora più complessa, dominata da logiche di natura drammatica e non da strutture performativo-monologanti?

Quando io faccio uno spettacolo, non mi preoccupo del genere che vado a fare, io penso che un certo tipo di teatro, almeno quello che faccio io, sia indefinibile, non ha la possibilità di essere definito, di essere acchiappato, di essere formalizzato fino in fondo, per cui non è che io prima di fare uno spettacolo dico adesso farò un monologo oppure adesso farò uno spettacolo corale, intanto i miei spettacoli anche se sono monologhi, sono sempre corali, perché Gaetano non parla una sola voce, parla le voci della sua storia e le voci della sua storia sono anche voci di bastoni, inanimate, perché sono voci che lui dà ai suoi compagni immaginari sulla scena, per cui io non l’ho mai chiamato monologo, lo chiamo “ soliloquio” perché nella solitudine noi non è vero che siamo soli, c’è un verso bellissimo di una poetessa “ senza la mia solitudine mi sentirei più sola”, ed è vero no? Cioè la solitudine è il luogo in cui una persona si mette a confronto anche con se stessa, dove tutto può essere capito molto di più la propria no mens leng, dove uno può fare comodamente la cacca e sentirsi pulito mentre lo fa, senza il giudizio degli altri. Allora Il festino è un soliloquio dove Paride non ha vergogna, dove mette in mostra tutte le sue paure e tutte le sue debolezze, questi bastoni che lui mette in piedi sono la sua grandissima competenza, lui è competente in questa cosa qui, e mostra la sua competenza. Cioè, lui cosa ha fatto tutta la vita? Ci sono persone che tutta la vita riescono a fare una cosa, e quando la fanno cominciano a morire. È un paradosso, ma è vero che quando tu trovi la strada, invece di essere il momento della rinascita, è il momento in cui cominci a morire. E questo fa Paride, lui trova il baricentro di tutte le cose e comincia a spegnersi, perché ormai il suo ruolo non ha alcun valore, non serve più a niente. E quindi non è un monologo, è il suo incontro disperato di solitudine con tutte le sue voci.

Valentina Miceli e Paola Stella Minni

venerdì 15 febbraio 2008

Una danza sfrenata senza fine

DISCO PIGS, di Valter Malosti

Valter Malosti e Michela Lucenti rivisitano Disco Pigs, spettacolo dell’autore irlandese Enda Walsh.

Utilizzano il testo come una traccia, stravolgendone il contesto, creando un’opera post-moderna, eludendone il realismo per trasformarlo in un incubo espressionista, nonostante emani una riconoscibile quotidianità. La scena si svolge su una piattaforma rettangolare, la pista di una discoteca, ma anche un vero e proprio palcoscenico in cui i personaggi si muovono con il volto coperto da maschere suine che ci riportano alla commedia dell’arte.
Due adolescenti, nati lo stesso giorno, crescono, inseparabili, in una periferia degradata. E’ il giorno del loro diciassettesimo compleanno, tutto sta per cambiare.
Il silenzio della sala buia è immediatamente interrotto da un “parto” psichedelico in cui le urla dei due neonati, Porcello e Porcella, si uniscono a quelle delle loro madri, un travaglio che durerà per tutto lo spettacolo, attirando magneticamente, mettendo la sala “sottovuoto” e restituendo solo qualche secondo dopo la fine il respiro agli spettatori.
Uno stato confusionale avvolge il racconto che i due giovani gridano come attraverso uno schermo televisivo, unico metro di misura che scandisce il tempo della loro crescita. Con orgoglio e ribrezzo mostrano la loro realtà, la periferia del mondo, la “porca città”. La violenza li rende forti, il morboso sentimento reciproco li fa sentire sicuri, la musica assordante e l’alcool li stordiscono per salvarli dalla disperazione, le luci abbaglianti scendono su di loro come catene di questa condizione.
Luci e parole si fondono in un turbine di sensazioni allucinatorie, e si legano al linguaggio del loro corpo, una sfrenata danza senza fine, esibita con grave leggerezza dalla danzatrice Michela Lucenti in perfetto stile Pina Bausch ; danzano la curiosità e la smania di essere venuti al mondo, la gioia di essere insieme l’uno per l’altra, re e regina, l’emozione di scoprirsi adulti nell’unione sessuale, e infine danzano la paura e la consapevolezza di essere rimasti soli. Danza anche la morte, metafora di ciò che sono, che siamo, di ciò che è dentro ma sta per esplodere.
Nell’unico momento riflessivo in cui si rompe l’incantesimo delle luci e della musica, attraverso un sogno, Porcella ritrova la realtà; è cresciuta e si scopre a desiderare qualcosa di diverso per se stessa, per il suo futuro. L’atto di violenza finale è la goccia che fa traboccare il mare di disgusto in lei, fugge per non tornare, per essere finalmente libera.
I secondi passati dal momento in cui si sono spente le luci al primo applauso mi sono sembrati minuti, un silenzio di approvazione forse, o forse no, di liberazione per chi è tornato a respirare chiedendosi, “perché non ci ho pensato prima?”.

Valentina Arena