Al centro della scena un telo bianco, teso, in mezzo al vuoto. Può bastare a fare uno spettacolo, può contenere uno spettacolo? Sì, perché questa sorta di schermo in pvc, che irradia luce, che attrae come una calamita i nostri sguardi, contiene ciò che noi cerchiamo; lo riproduce, lo mostra sfuggevolmente, timidamente prima, con lampi di irruenza poi. Dalla sua superficie liscia emergono escrescenze di vita, accennate protuberanze informi che appaiono e scompaiono. Un’insistenza, un richiamo, un volersi mostrare per frammenti: parti di noi che non siamo più, bassorilievo schiacciato di figure che non si espongono nella loro interezza, perché l’integrità cercata è stata logorata dalla sovraesposizione mediatica. Così l’indagine sul corpo si compie per sottrazione, quasi totale, di ciò che va solo immaginato. Perché dietro quelle visioni astratte, che richiamano alla mente delle immagini video piuttosto che di teatro, c’è lì, in quel momento, una vera massa fatta di carne, muscoli e ossa, che si muove, che cerca di far emergere la propria necessità ontologica. Una materialità che si trasmette anche a livello uditivo, attraverso lo struscio impercettibile contro la parete vinilica, che cela ma non nega, separa ma al contempo predispone all’incontro, al desiderio da parte nostra, della rivelazione. Tutto accade dietro, in quello spazio dove non ci è data la possibilità di accesso, dove i corpi possono fluttuare e sgretolarsi, ricomporsi per poi di nuovo perdersi nel candore lattiginoso della tela. I momenti salienti di queste epifanie sono accompagnati da rumori, suoni, voci campionate, che arrivano da un immaginario oscuro e tecnologico e che fanno vibrare lo stomaco e le sensazioni percettive, insieme.
La giovane compagnia bolognese Pathosformel con questo lavoro, grazie al quale vanta una segnalazione speciale al Premio Scenario 2008, opera sulla negazione del corpo dell’attore, della sua non visibilità sulla scena; e grazie all’utilizzo di attrezzature ingegnose per quanto semplici, si avvicina a quelli che sono i confini della videoarte, richiamando alla mente le ricerche di Chris Cunningham sul corpo smembrato, post-organico, inseguendo l’imprevedibilità generata da un’epoca in cui tutto è esposto agli occhi, ogni cosa è visibile, passata ai raggi x che ne rivelano lo scheletro.
Nessun commento:
Posta un commento