L’incipit sembrava confermare i miei pregiudizi, che pian piano però svanivano trasformandosi in immagini e suoni di un mondo e di una storia ricamata con maestria, la storia di “Anna Karenina”.
La vicenda apparentemente romantica dell’amore “extraconiugale” contrastato e vincolato dalle convenzioni sociali e dalle ossessioni amorose, diventa substrato di un fitto terreno di simboli e segni giocati dagli attori in scena. Questa si trasforma in una macchina perfetta, in rapporto continuo con la fisicità e il gesto degli attori, che con le loro movenze, i loro salti e la loro iperattività non possono che richiamare la “biomeccanica” Mejercoldiana.
Nekrosius crea un mondo a sé stante, dove ogni oggetto acquista autonomia divenendo significato e significante, dove la parola viene dimenticata e sovrastata dallo spazio.
Tutto ciò non ostacola, ma sostiene la storia raccontata da Tolstoj, che trova nel tempo non solo la sua metafora, ma il suo raggio d’azione.
Un tempo che non è semplicemente condizione accidentale o causale, ma totalmente esistenziale, il tempo per amare, il tempo per vivere, il tempo per morire; un tempo che sembra ricordarci che esiste proprio quando crediamo di essere felici, è lì che sorge dinnanzi ai nostri occhi, come quando Anna Karenina si perde continuamente nei suoi desideri e nei suoi sogni continuamente disillusi.
Enormi orologi attraversano la scena, figure emblematiche di una realtà intangibile, portando via con sé le vicende familiari, politiche e amorose.
Alla fine dei tre atti mi ritrovo ancora una volta a discutere e riflettere sul tempo, ma con altre prospettive e per altre ragioni.
Vincenzo Picone
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