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Osservazioni, schizzi, resoconti, pensieri imperiodici dalla stagione del centro di promozione teatrale La Soffitta e non solo. Servizi, approfondimenti e recensioni a cura del laboratorio di critica teatrale "Lo sguardo che racconta" condotto da Massimo Marino presso la Laurea Specialistica in Discipline Teatrali dell’Università degli studi di Bologna.


Direttore: Massimo Marino

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Redattori: Beatrice Bellini, Lorenzo Donati, Alice Fumagalli, Francesca Giuliani, Maria Cristina Sarò

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Questo blog è realizzato dal laboratorio in completa autonomia dal Dipartimento di Musica e Spettacolo dell’Università di Bologna.




venerdì 28 marzo 2008

QUATTRO GIORNI CON LA STOA

Ai Laboratori Dms Claudia Castellucci racconta l' esperienza della Stoa, scuola teatrale di movimento fisico e filosofico, da lei fondata a Cesena nel 2004. Di seguito si è tracciato un resoconto di quanto è emerso, nell'arco di quattro intense giornate, attraverso un ciclo di incontri. Dal seminario introduttivo, passando dalla visione diretta dei Balli e concludendo con un intervista collettiva fra studenti universitari e allievi della Stoa, ha preso forma la consapevolezza di un lavoro artistico che si pone tra didattica e continua ricerca.

Finalmente l’arcano è stato svelato, i diversi interrogativi che fin’ora in molti ci eravamo posti su cosa fosse la Scuola dietro la quale troneggiava il nome della Socìetas Raffaello Sanzio, hanno avuto risposta. In una manciata di giornate la Stoa, prima attraverso le parole di colei che ne è madre e ambasciatrice, Claudia Castellucci, poi grazie ai corpi ritmici, sulla scena, dei suoi scolari, si è rivelata, in quel linguaggio che appare, arcaico e postmoderno, apparentemente facile ed estremamente articolato al tempo stesso. Un breve percorso che ci ha permesso di intravedere non solo una diversa possibilità di teatro (dove per diversità, paradossalmente, intendiamo un teatro molto più vicino al significato primo del termine di quanto non lo sia gran parte della spettacolarità proposta sulle scene), ma anche di riflettere su argomenti più ampi, che possono spaziare dalla storia dell’arte alla filosofia, dall’importanza del linguaggio al valore dell’insegnamento in senso lato. Una successione d’incontri dei quali possiamo ora ricucire impressioni, ricordi e nuove nozioni apprese, e ritrovarci infine fra le mani un lembo di quel vestito bellissimo e variopinto che è l’arte, la cui stoffa attinge i propri pigmenti dalla vita e da tutto ciò che ne è forza generatrice
Il primo appuntamento che ci permette di entrare in contatto con questa realtà cesenatica, tappa iniziale del tentativo di penetrare nel fitto universo pedagogico della Scuola teatrale di movimento fisico e filosofico, avviene sottoforma di seminario, il cui titolo “Angolo retto e Salto. Geometria e cronologia del ballo”, sembra rimandare più a dottrine pitagoriche o a indecifrabili richiami massonici, che a una discussione sui balli realizzati da un gruppo di normalissimi, seppur capacissimi, adolescenti.
Claudia Castellucci non si perde in giri di parole e introduce se stessa e la sua scuola in maniera sintetica e precisa, ponendo sin da subito la nostra attenzione su quelli che sono i due principi su cui si regge il lavoro all’interno della Stoa, un’esperienza che si esplica nel ballo e che trova i suoi due nuclei generatori appunto nell’angolo retto e nel salto. Si procede per gradi, entrambi questi concetti hanno bisogno di essere sviscerati e analizzati, e per farlo occorre partire da più lontano, ripercorrere quegli studi che forse sono gli stessi che questa Maestra propone o presenta ad ogni nuova “generazione” scolastica; non viene ad annunciare il suo lavoro, ma ci introduce volontariamente all’approccio teorico che sta alla base della sua Scuola, virando la prima parte del suo discorso verso uno dei più importanti pittori del secolo appena passato, l’olandese Piet Mondrian, e regalandoci una magistrale lezione di storia dell’arte contempoaranea.
Così, procedendo alla scoperta di come nella storia dell’arte visiva si sia giunti nei primi decenni del Novecento, attraverso l’astrattismo, alla rappresentazione della natura in forme essenziali e primarie, il discorso sembra allontanarsi senza ritorno dal nostro punto di partenza e trascinarci verso ambiti di riflessione apparentemente distanti; quello che si va a toccare “è un argomento fisico, geometrico, metafisico”, come preannuncia la Castellucci, per il quale Mondrian, considerato nell’evoluzione del suo percorso artistico, viene tirato in ballo come portatore assoluto del concetto di angolo retto; dall’osservazione e dall’analisi dei suoi lavori è possibile allora capire cosa possa celare questa forma geometrica nella sua apparente linearità. Ponendolo a
confronto con l’arte del suo tempo, ne risulta che se nella pittura impressionista era forte l’esigenza visiva del passaggio continuo della materia, dato dal movimento (per questo la presenza di elementi naturali come le foglie e l’acqua) e realizzato nell’esperienza del colore sulla tela, in Mondrian invece, la realtà è bloccata e spogliata del suo impulso vitale, nel tentativo di scoprire lo scheletro in cui esso scorre. Quel movimento che futuristi e cubisti successivamente fanno emergere, dichiarandolo nella sua scomposizione e illustrandolo, a volte in maniera quasi didascalica, si avverte nelle opere del pittore astratto nella sua condizione radicale, impresso nelle linee verticali e orizzontali che s’intersecano, che ricadono le une nelle altre, escludendo qualsiasi altra forma, rifiutando nella loro essenziale partitura persino la linea obliqua.
D’obbligo, poi, ricordare allora la definizione euclidea di angolo retto e servirsi di questo riferimento anche per scivolare indietro nel tempo, fino alle origini della nostra cultura classica (e moderna), e da lì ripartire dopo aver scovato il significato puro dei termini troppo consumati e corrotti nell’oggi per farne un uso appropriato. La nostra Insegnante ci guida allora nell’etimologia del termine “misura”, una misura che come spiega “non è un concetto con un fine solamente utilitario, ma c’è in esso un aspetto etico, essendo riferito alla misura in sé”. Da qui allora si può tornare indietro, al valore primario che assume l’angolo retto in quanto metro di misurazione, e impossibile da misurare se non con un altro identico a sé. Quella a cui si fa riferimento in generale è una misurazione dello spazio, una misura nel senso di orientamento e non già una grandezza definita.
Un po’ alla volta la lunga parabola digressiva rientra nei binari della direzione maestra e le nozioni apprese circa il primo dei due elementi cardine trovano la loro giustificazione nell’applicazione descritta del ballo: a quest’ultimo l’angolo retto garantisce di essere misura del tempo più che dello spazio, poiché è proprio la dimensione temporale ad avere un valore e uno scopo; a questo l’angolo retto consegna, inoltre, il punto cruciale tra le linee verticali e orizzontali lungo una superficie – del quadro come del palcoscenico. Nella sua concretizzazione sulla scena, infatti, la libertà che ne deriva non allude a un girovagare, tantomeno espressivo dei sentimenti, per il palco, né è contemplata come disordine e spiritualità; la possibilità di trascendenza che riguarda le linee ortogonali, infatti, non appartiene al pensiero, ma all’inorganico, a qualcosa cioè che non cambia mai, che ha una sua forma fissata e un valore fisico, fisiologico.
A questo punto si può introdurre il secondo elemento basilare del ballo inteso dalla Stoa, ovvero il salto; in esso si attesta, attraverso l’altezza, l’essenza della perpendicolarità, in altri termini, la trascendenza. E’ un salto sul posto, che definisce il proprio movimento non nello spazio ma nel tempo e per questo contribuisce ad abolire il concetto d’inizio e di progressione, mentre sono presenti linee ortogonali di andata e ritorno. Tutto ciò nella pratica ha un riscontro effettivo maggiore poiché è il salto stesso che diventa una metrica intrinseca all’azione,
per cui ogni passo corrisponde a un battito che altro non è se non l’esemplificazione del tempo. Basandosi sulla cadenza, il ballo percuote una misura; la cadenza pone un ritmo, una ricorrenza di battute laddove non c’è nulla di precedentemente regolato, stabilito. Di conseguenza, il ballo diventa una forma di misura autogena, una pratica di determinazione temporale, e quindi esistenziale; sono i fisici rintocchi di un tempo che rivela e che custodisce in sé una dimensione che riguarda l’anima di ognuno.
Claudia Castellucci ci svela così l’essenza dei suoi lavori, il punto di partenza che è al contempo salto nel vuoto, caduta; il passo cadenzato dei balli evoca, infatti, il precipitare: una regolarità nella caduta che costituisce il ritmo e che, insistendo su un punto piuttosto che alludere ad un allargamento, circoscrive fortemente lo spazio in una dimensione ristretta, ponendo in primo piano l’uso degli arti inferiori. Tutto ciò motiva la profonda differenza che separa la danza dal ballo, non essendoci in quest’ultimo, inoltre, alcuna volontà di rappresentazione, né previsto alcun tipo di interpretazione. E’ presente in esso una propria psicologia, o meglio un elemento psichico che va al di là del soggetto che vi partecipa, ma da questo viene assorbito per poi tornare fuori sottoforma di pensiero che immediatamente si fa gesto.
Sul palco vuoto, allora, ogni volta aleggia una condizione di caos invisibile perché ciò che accadrà è già presente in potenza; è un nulla che ospita tutto quello che può accadere ed è compito dell’individuo che prende parte al ballo, andare ad abitare questo spazio, trovarvi la propria posizione e quindi agire e misurare. Nel ballo non esiste il concetto di errore perché, ciò che è comunemente inteso come tale, assume al suo interno lo statuto di qualcosa che è successo, un inciampo che non viene vissuto come sbaglio, ma come una porta per un altro tipo di passo. E’ il “dio Caso” che si manifesta - e a noi, non resta che aspettare la sua prossima epifania.

Nei successivi incontri, fra letture, seminari e in particolare grazie a un’intervista collettiva con gli studenti del Dams, Claudia Castellucci racconta precisamente cos’è la Stoa,"scuola sul movimento ritmico” di Cesena, da lei creata tre anni fa ma già pronta a chiudere i battenti. La forma della Stoa è quella di un'assemblea localizzata: ragazzi all'incirca dai sedici ai vent'anni si riuniscono per iniziare un percorso di coscienza individuale e collettiva della fisicità. La giovane età è necessaria: la Stoa è un luogo dove non possono avere dimora aspettative viziate, un'attività legata a un desiderio specifico non sarà mai totalmente libera. "Con l'avanzare dell'età - afferma la Castellucci - le persone possono crearsi aspettative verso la Raffaello Sanzio, mentre questo rapporto non può e non deve esserci. Quello che è in gioco non è il teatro ma una pratica personale che si fa insieme agli altri". Gli incontri settimanali sfociano nell'elaborazione di balli, due dei quali sono stati presentati ai laboratori Dms, all'interno della stagione teatrale della Soffitta: Ballo capace di agonia e Pro Loco Isto. La Stoa è un punto d'incontro tra idee e movimenti, è una matrice all'interno della quale si sviluppano interazioni, riflessioni sulle modalità e sulle forme, più che sul contenuto delle azioni stesse. Il ballo è dunque la pratica che al meglio sintetizza il concetto alla base della scuola: è come un merletto, un pizzo. Durante gli incontri della Stoa, dopo una fase intensa di ginnastica, s'iniziano a creare dei movimenti ginnici. La ginnastica serve per preparare i muscoli, per affrontare la fatica e il movimento. Si costruiscono via via passi sempre più complessi, diventano ritmici, da una battuta regolare alternata fino alla battuta del salto. Il salto che crea il ritmo, battendo i piedi, e il salto che si compie seguendo pedissequamente la musica. Nel ballo la parte più importante del corpo sono le gambe che dirigono gli spostamenti. I passi seguono un andamento ortogonale ma anche radiale. Tornando alla metafora del pizzo, i passi effettivamente sono come un ricamo. Non raccontano una storia, sono pura decorazione. Occorre seguire il ricamo, le sue vie, le sue direzioni. I salti si accumulano e si mettono in sequenza, il nesso è il ritmo, quel Super Ritmo che riguarda tutta l'arte. La coralità è la caratteristica più evidente nel ballo, gli individui compiono movimenti uguali, legati dal ritmo, dalle regole interne. Ma al contempo emergono nettamente le individualità dei singoli: i movimenti hanno sfumature di colore diverse, come diverse sono le interpretazioni e gli sguardi. Indubbiamente le peculiarità dei singoli sono esaltate dai costumi, tutti rigorosamente identici. Durante le esecuzioni si stagliano dal coro delle guide, individui scelti nella fase di creazione del ballo che si alternano nell’indicare cambiamenti di direzione e nel ricordare i passi, attraverso la voce o anche solo col movimento. La memoria dei passi si crea con la ripetizione. Capita che si prendano appunti per evitare di dimenticare la volta dopo il movimento imparato, ma la memoria del corpo non si costruisce a parole. È necessario comprendere che nel ballo non si tende a una rappresentazione esteticamente perfetta di qualcosa, del ricamo. Dunque non esiste errore: lo sbaglio è un movimento che arriva inaspettato ma che può condurre a altro, può innescare meccanismi diversi e individuali, per poi recuperare la traiettoria collettiva. La difficoltà maggiore, dicono gli allievi, è proprio abolire il concetto di errore: non è forse un problema comune della società in cui viviamo, credere che una direzione deviante sia sbagliata?

Scavare nell’essenza del ballo della Stoa può portare anche a far emergere alcuni interrogativi su cosa il ballo non deve e non può essere.
Il ballo non è un rito. Rimane decisamente sotto questa dimensione, probabilmente evocata dalla struttura e dall'organizzazione della Stoa: può evocarlo per la periodicità degl'incontri, per l'importanza del luogo di riunione, per il fatto di convergere in uno spazio che è sempre lo stesso, il legame rispetto a un tempo periodizzato, che ha all’interno un orientamento temporale determinato, ad esempio, dalle feste; in questi termini può ricordarlo. Ma la Stoa, come è la stessa Castellucci a ribadirlo, si pone molto al di sotto della soglia del rito, non compromettendosi con la complicanza data dal discorso sulla salvezza intrinseco nelle azioni rituali: nel ballo non c'è salvezza, né tanto meno è ricercata.
Allo stesso modo il ballo non si prefigge un ruolo terapeutico. E' certamente uno strumento forte che da un lato aiuta o enfatizzata la creazione di rapporti sociali, dall'altro porta a utilizzare il corpo in modo più profondo e consapevole. La ginnastica durante gli incontri diventa infatti essenziale per imparare a gestire al meglio le proprie possibilità e la fatica. Il ballo in sé però non ha nulla di terapeutico.
Il ballo della Stoa, inoltre, non è da intendersi come una pratica di massa, comunitaria, da festa di paese. Il ballo folklorico è legato ad una storicità negativa, intrattiene un rapporto col luogo, la terra e le origini, ma in fondo si tratta di una retorica falsa, inattuale, "fasulla". La Stoa segue una direzione opposta: ritorna l'importanza delle origini, dello spazio, perchè è il ballo stesso a dar vita ai luoghi. "Il ballo della Stoa nasce a Cesena, ma non è legato alla città in quanto punto atavico, in quanto realtà romagnola. Non è tanto IL posto a suscitare il ballo quanto il fatto di incontrarsi, il legame che ognuno di noi crea con quel luogo, cosicché il ballo suscita il posto". Il ballo dovrebbe essere inquadrato in un aspetto spazio-temporale: il suo contesto naturale non è teatrale perché la pienezza del significato la si ha nella scuola, e quindi nel luogo, nel posto che viene raggiunto settimanalmente per due o tre anni. "Portarlo in un teatro, continua la Castellucci, è qualcosa di spurio, significa teatralizzare una cosa che ha senso nel momento in cui la si fa. Aprire questa concezione spazio-temporale significa offrire il ballo a una probabile devastazione".
La Stoa, dice la Castellucci, nasce da un impulso e dal relativo desiderio di fermarlo: "se l'impulso è qualcosa che ha a che fare con l'istinto, in questo caso è un impulso raffreddato dalla preparazione e dal tentativo di capire l'istinto stesso e, alla base, c'è un forte desiderio di generazione". Questo desiderio di generare si sintetizza perfettamente nella figura dell'insegnante. Altro che scuola eretica! In un certo senso la Stoa è una scuola di tipo classico, perché fondata sul rapporto speciale fra insegnante e allievo, dove l'insegnante si trova a generare chi lo genera. E la scuola è una fabbrica del vincolo, quel vincolo che i ragazzi scelgono nel momento stesso in cui decidono di entrare nella Stoa, quel metro che è incarnato dall’insegnante, madre scelta e dunque generata dai figli. “Non ho mai fatto selezioni - dice la Castellucci - sono gli allievi a scegliere me, non si entra nella Stoa perché si vogliono saldare amicizie. L’amicizia c’è, nasce nel tempo inevitabilmente ma non è contemplata come un'attività che favorirebbe l'incontro dell'uno con l'altro. Prima di sapere i nostri nomi occorre che passino almeno quattro o cinque incontri, perché il nome è la cosa più importante da sapere e non si può conoscere come una curiosità… ‘Come ti chiami tu? Cosa fai e da dove vieni?’… Tutto questo che può essere visto come espressione di amicizia ma in realtà è violenza”. Generare non significa dunque creare repliche di sé, si annulla nella reciproca generazione un modello di riferimento teleologico, in cui l’insegnamento diventa una semplice trasmissione personalistica di saperi. Il maestro è una guida che propone moduli e stabilisce dei modelli, in un’indispensabile forma parametrica dove i vincoli sono metri di paragone che dispongono ad agire, a discutere e a porre in discussione il vincolo in quanto tale,
ma anche il sé in rapporto al vincolo. “Proprio perché non esiste la creazione dal punto di vista teatrale, nel senso che l'aspetto della creazione dei passi è ridotto a un grado piuttosto basso, è chiaro che io pongo dei filati (per continuare la metafora del pizzo) e ognuno poi cuce alla sua maniera. Ma la direttiva del filo è unica”. Così nel ballo è evidente un modo di ballare assolutamente individuale sebbene il passo sia il medesimo. Non c’è un problema di margine e di libertà rispetto ai modelli dati dall’insegnante perché il parametro diventa un metro di paragone da cui partire, e il concetto di misura, in senso greco, comporta delle decisioni morali, etiche, pesanti e estremamente personali. “La cosa del tutto inessenziale è che una volta fatti i passi, si può scoprire che è meglio farli in altro modo, e quindi tutte le persone possono proporre di farli in altro modo, ma questo aspetto è giusto metterlo in ombra perché credo non sia interessante la creazione collettiva. Il passo non ha un valore estetico di per sé, ma il grado di valore del passo è che tutti lo fanno. Nel momento stesso in cui viene assunto il passo acquista valore, il rapporto parametrico ha valore”.



di Paola Stella Minni e Giulia Tonucci





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