Il percorso di un lavoro beckettiano che lo storico duo del teatro italiano Rem & Cap ha sapientemente attraversato negli anni, per approdare a un esito finale autonomo.
L’uomo si trova da sempre in una condizione di reiterata impotenza, davanti alla realtà, davanti all’infinito, davanti a se stesso; l’arte, di contro, cerca di dar forma a questi dubbi generando, se non possibili risposte, tortuosi percorsi di ricerca e riflessione.
Da trentacinque anni Claudio Remondi e Riccardo Caporossi - due formazioni differenti - l’uno studi architettonici l’altro scuole di teatro tradizionali, percorrono insieme un tragitto che ha segnato la storia del teatro di ricerca in Italia.
“Altri giorni felici” sembra rappresentare la chiusura di un ciclo, o forse un più chiaro richiamo a quel testo di Beckett che nel 1970 fece incontrare i due attori, e che però non poté mai essere rappresentato.
Gli scritti del drammaturgo irlandese sono infatti protetti dal diritto d’autore, in maniera capillare, dall’ultimo suo erede Edward Beckett, e in Italia dall’agenzia teatrale D’Arborio, che nel 2006 ha intrapreso una battaglia legale con Roberto Bacci, regista del teatro di Pontedera, “reo”di aver affidato a due sorelle gemelle le parti di protagoniste di “Aspettando Godot”.
Nonostante il grande scrittore statunitense Edward Albee, definisca “stupido” oltre che illegale, non rispettare pedissequamente le indicazioni nei testi di Beckett, la genialità di questo, non risiede forse nella capacità di far riflettere su concetti universali, descrivendo una realtà apparentemente assurda?
Questo Remondi e Caporossi lo sanno bene, e aggirando l’ostacolo prendono Beckett con i suoi “Giorni felici”, a pretesto drammaturgico e simbolico per fare, dopo trent’ anni, i loro “Altri giorni felici”.
Sulla scena una struttura in acciaio, ancorata al suolo con i suoi tentacoli, regge a mezz’aria un uomo, anch’egli ancorato alla sua realtà tra cielo e terra.
Dall’alto una fune regge un cappello (da sempre simbolo di Rem & Cap) che lentamente plana sul capo e sui pensieri dell’uomo, in basso un paio di scarpe fanno compagnia ad un altro attore, muto e anonimo nella sua tuta bianca, pronto a ricevere tutto ciò che “cade dal cielo”.
Poi la parola prende il sopravvento: parola evocata, giocata, vissuta e stuprata da un flusso di coscienza che non lascia spazio alla comprensione.
Centinaia di chiavi, riescono a instaurare una simbolica relazione con il verbo; la chiave come possibile libertà, la chiave come ricerca di un’interpretazione, la chiave come impossibilità di trovare quella giusta.
In scena c’è la vita, con le sue contraddizioni e i suoi punti irrisolvibili, quella vita che spesso non viviamo, ma osserviamo da lontano; ed ecco che nel secondo atto l’uomo non parla più, e sceso dal suo “piedistallo”, ascolta inerme e con le spalle rivolte al pubblico una voce (forse la sua?) che ripropone, con altre parole, quel graduale flusso di coscienza che questa volta lo inchioda al suolo e ai suoi pensieri.
Ecco perché “Altri giorni felici”; perché in questo paradosso risiede l’illusione che ogni giorno l’uomo crede di vivere.
Ma tutto ciò è davvero possibile fruirlo in un’ora e quaranta minuti di monologo e di segni che si accavallano continuamente? Ed è possibile capire questi senza conoscere a priori il teatro di Remondi e Caporossi?
Forse no, ma è pur vero che se l’arte teatrale si arrendesse a ciò, cesserebbe di esistere.
Vincenzo Picone
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