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Osservazioni, schizzi, resoconti, pensieri imperiodici dalla stagione del centro di promozione teatrale La Soffitta e non solo. Servizi, approfondimenti e recensioni a cura del laboratorio di critica teatrale "Lo sguardo che racconta" condotto da Massimo Marino presso la Laurea Specialistica in Discipline Teatrali dell’Università degli studi di Bologna.


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Redattori: Beatrice Bellini, Lorenzo Donati, Alice Fumagalli, Francesca Giuliani, Maria Cristina Sarò

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mercoledì 2 aprile 2008

Imbarazzo e vergogna dello sguardo

Ai Laboratori DMS i giovani artisti della Valdoca ripercorrono le figure universali del teatro: il buffone, il saltimbanco, il fool, ovvero il clown.

L'Officina Valdoca, aperta per volontà del Teatro Valdoca, integra al suo interno giovani artisti che maturano in un comune luogo poetico, sviluppando allo stesso tempo la propria individualità.
Opera si presenta come un'incorporazione da parte dell'attore di figure che fanno parte dell'immaginario teatrale, icone di un tipo di presenza scenica che, come in questo caso, è espressione di vergogna, di imbarazzo e di commozione. Il fulcro di questo immaginario, che è stato messo in scena come una pura provocazione allo sguardo, è il clown, che appare nelle vesti di Arlecchino recitando in playback il monologo finale dell'elfo Puck di William Shakespeare. Un velo tra il pubblico e la scena e sul fondo un altro velo con foro circolare, dietro il quale si trova un uomo nudo dal volto mascherato, mantengono intatta l'idea di un mondo che sfugge alla completa comprensione del pubblico, figure ricreate che oscillano tra l'apparente finzione e l'ignota realtà. Un burattino, lo scheletro di Pinocchio, è calato dall'alto: il clown cerca di muoverlo, di animarlo, per poi ricollocarsi nel proprio intimo protagonismo, quello in cui deve far ridere il pubblico, ma s'imbarazza e si vergogna per l'attesa generata dal silenzio. Cede così al pianto, al lamento più sofferto, altro momento che egli rende spettacolare attraverso la finzione: da dietro le sue orecchie emergono getti d'acqua che egli stesso fa fuoriuscire da una pompa e che bagnandolo rovinano il trucco del volto fiabesco al quale appartiene. Infine, sempre lui, il clown nelle vesti di Arlecchino e di tutte le altre figure che porta in sé ride fino al punto di animarsi violentemente, sbattendo ripetutamente la testa contro la parete, forse credendo di possedere una testa di legno come il suo burattino.
Questo è il risultato di una performance fine a stessa, che non sente la necessità di esprimere alcun senso, ma che proietta direttamente allo sguardo le immagini di un'esistenza teatrale che tutti conoscono e nelle quali si rispecchia l'artista. Probabilmente a causa della breve durata dello spettacolo e di una tensione che sembra non arrivare mai al culmine, non esplodendo in tutta la rabbia o la gioia, lo spettatore può iniziare a percepire con più suggestione ciò che gli viene mostrato solo nel momento in cui lo spettacolo finisce. Sembra che allo spettatore sia negata la possibilità di capire di più, lasciandolo sospeso… Ma forse è proprio in questa noncuranza di un ulteriore sviluppo che consiste l’intento.

Stefania Baldizzone

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