Un torrente ipogeo ha scavato il suo corso nella città, ha lasciato sedimenti di emozioni, conglomerati di suggestioni, rimanendo ignoto a molti, eccezion fatta per qualche breve affioramento. Claudio Remondi e Riccardo Caporossi, tornano a Bologna offrendo ancora una volta, con l’umanità e la semplicità che li contraddistingue, il meglio del loro lavoro: in circa dieci giorni hanno infatti presentato all’Arena del sole Altri giorni felici e hanno incontrato, coordinati dal professor G. Azzaroni, pubblico e studenti presso i laboratori CIMES in Via Azzo Gadino, dove Caporossi ha anche condotto il laboratorio Aleppe.
In tale contesto Altri giorni felici è apparso ancora più significativo ed emblematico di quanto già non lo fosse, proponendosi quasi come sintesi dell’esperienza di una vita vissuta insieme, restituita con uno sguardo malinconico che rilegge il passato e sente il peso del tempo. Come se chiudessero un piccolo grande cerchio nella storia del teatro italiano, infatti, i due si riappropriano di un lavoro iniziato nel 1970 sul beckettiano Giorni felici - mai effettivamente portato in scena perché ne vennero negati i diritti - questa volta stravolgendo e fagocitando il testo per poi restituirlo con esplosioni verbali che rapiscono lo spettatore nel vorticoso flusso di coscienza di Remondi.
Un grande telo si schiude alla vista dello spettatore lasciando apparire, sotto l’effetto di una luce algida ed epifanica, l’imponente macchina scenografica in acciaio che per tutto il primo tempo sospende la vita umana nel tempo indefinito della memoria e nello spazio magrittiano in cui dominano alcuni fra i principali oggetti cari ai due teatranti come scarponi e cappello, una vera e propria ‘divisa’ per Rem&Cap, strumenti che traghettano l’attore al limite fra persona e personaggio, fra se stesso e altro da sé, fra teatro e vita. Ed è proprio in questa terra di confine che si gioca la scommessa di Remondi di sviscerare a gocce i ricordi di rapporti familiari recuperati in extremis e vicende personali, attraverso una parola fisicizzata, svuotata di senso e sbilanciata dalla parte del significante , che permette solo allo spettatore attento di trarre informazioni sullo stato dell’attore-personaggio, secondo la tipica ambiguità del teatro di Rem&Cap che sembra, e argutamente si finge, incapace di dire e svelare fino in fondo le regole del gioco.
Nel secondo tempo la situazione si ribalta: Remondi è in piedi sulla scena e si pone con le spalle alla platea, costretto ad ascoltare la sua voce registrata che racconta e ci restituisce l’immagine di un uomo che si sente e si pente di essere complice di tutto il male compiuto nel mondo e che firma il suo atto di dolore inchiodandosi, con la forza delle radici di un albero secolare, nei suoi pesanti scarponi.
Uno spettacolo in cui gli impulsi derivanti principalmente dal testo beckettiano sono, quindi, imbevuti degli elementi tipici del teatro di ‘Remossi e Caporondi’, come li hanno definiti con un simpatico gioco di parole che però descrive in modo assai efficace il risultato di questo lavoro in cui motivazioni personali si fondono con una semplicità che diventa genialità negli incontri fra realtà dicotomiche come sono le stesse personalità dei due teatranti in questione e che emergono emblematicamente nei rapporti di pieno-vuoto, luce-buio, parola-silenzio. Durante il dibattito coordinato dal prof. G. Azzaroni il giorno seguente la presentazione dello spettacolo, è emerso come tali caratteristiche rimandassero ai principi base della cultura e delle rappresentazioni orientali, note per la loro essenzialità. Ma un confronto diretto con Remondi e Caporossi ha chiarito come la potenza d’ingegno della loro attività sta nel non ricercare o esplorare in luoghi altri dalla propria esperienza valori strutturanti ma nel far pervenire tutto da quei dati incorporati e maturati spontaneamente nel corso di una vita: etichette o categorie risultano infatti sempre inefficaci per descrivere i loro lavori, generalmente costruiti a partire da un’idea sviluppata laboratoriamente e fissata man mano attribuendo un ruolo preponderante alle connessioni fra spazio e oggetti, costruendo luoghi in cui si cerca di uscire e penetrare, delimitando recinti sacri. La medesima logica che Riccardo Caporossi ha magistralmente fatto conoscere ai partecipanti del laboratorio Aleppe, che in soli dieci, intensissimi, giorni è riuscito a dar vita appunto a un semplice impulso di partenza, ancora basato su quelle opposizioni fondanti tutto il teatro di Rem&Cap. Una dozzina di ragazzi, dei sacchi di iuta, la luce di una lampadina e pochi semplici gesti sono riusciti a rievocare un mondo ben più profondo in cui lottano male e bene nei loro parossismi, avari e prodighi, proprio partendo dalla suggestione data dal Pape Satàn, pape Satàn aleppe del VII canto dell’Inferno dantesco.
Bologna e gran parte degli addetti ai lavori, studenti in primis, sembrano essere rimasti indifferenti a questa iniezione e lezione di umanità e professionalità, come del resto accade già da tempo nel nostro paese. Rimane da chiedersi il motivo di tale disinteresse…forse per poi far sfoggio di onorificenze e medaglie al valore quando ormai – e forse neanche fra molto – sarà troppo tardi?
Elisa Cuciniello
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