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Osservazioni, schizzi, resoconti, pensieri imperiodici dalla stagione del centro di promozione teatrale La Soffitta e non solo. Servizi, approfondimenti e recensioni a cura del laboratorio di critica teatrale "Lo sguardo che racconta" condotto da Massimo Marino presso la Laurea Specialistica in Discipline Teatrali dell’Università degli studi di Bologna.


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Questo blog è realizzato dal laboratorio in completa autonomia dal Dipartimento di Musica e Spettacolo dell’Università di Bologna.




giovedì 1 maggio 2008

Intervista con Fabio Acca

Dentro, Fuori è un work in progress...

Dentro, Fuori è la seconda tappa di un trittico iniziato nel 2006 con No Passport, di cui ho curato la regia. Lo spettacolo si avvaleva della presenza di Vanda Monaco, che condivideva la scena con un altro attore, Alessandro Gallo, sorta di presenza muta o “servo di scena”. In Dentro, Fuori, Alessandro ha un altro compito molto preciso e delicato: agisce dentro l’involucro in cui avviene buona parte della performance di Vanda, riprendendo il corpo dell’attrice con una telecamera, secondo una partitura prestabilita.
Il trittico vuole indagare quella che Annalisa Sacchi ha definito “la dimensione intervallare dell’attore”, o il suo limite. “Limite” inteso sia come il momento in cui la verità del corpo sulla scena sospende la rappresentazione, sia come soglia fisica della presenza dell’attore, sempre al limite tra realtà e finzione. Nel caso di Dentro, Fuori, il limite è anche l’intervallo che sospende il genere: infatti, il meccanismo teatrale è in parte dato dalla forma concerto, in parte dalla performance, in parte da una specie di “cinema dal vivo”. Il terzo atto dovrebbe debuttare nel 2009, ma i tre atti del trittico, benché concepiti come work in progress, hanno una vita autonoma.

Tutto è partito dallo studio delle lettere di Giacinta Pezzana...

Abbiamo raccolto un suggerimento di Laura Mariani, che l’anno scorso ha pubblicato un libro su Giacinta Pezzana e le sue lettere. Ma non ci interessava recuperare la memoria storica dell’attrice applicando un filtro filologico, quanto mettere in atto un’operazione che abbiamo definito di “archeologia inversa”: cioè, lavorare liberamente sul passato - in questo caso la realtà di un’attrice come la Pezzana, maestra della Duse, decisamente distante dall’immaginario contemporaneo – senza però l’obiettivo di farne un’attualizzazione. Piuttosto, ci stimolava recuperare il materiale biografico tratto dalle sue lettere e immergere questo elemento drammatico in un corpo specifico, in questo caso il corpo di Vanda Monaco. Non c’è una fonte da recuperare, semmai la volontà di trasferire un materiale puro in un corpo attuale. Quindi, una specie di alchimia, in cui facciamo reagire elementi del passato dentro un corpo di oggi. Infatti, il testo verbale dello spettacolo è una riscrittura drammatica a partire dalle lettere, su cui Vanda ha fatto inizialmente un lavoro di selezione e montaggio, poi rimontate e riscritte da me in una lingua “dicibile”, come se venissero dette oggi, da una donna di oggi, in modo che non avessero quella qualità letteraria del suo presunto originale. Senza, dunque, la volontà di attualizzare o, peggio, restaurare un’origine. Il presente è per noi una condizione necessaria.

Attore intervallare, chi è?

Attenzione: una cosa è l’attore, un’altra è la condizione in cui l’attore opera. Quindi non si tratta di definire un “attore intervallare”, bensì una “condizione intervallare” dell’attore. Come accennavo prima, è un’intuizione di Annalisa Sacchi, che ha curato il progetto per la stagione della Soffitta. E’ quella dimensione liminale in cui l’attore sospende l’idea di rappresentazione per entrare nel circuito della realtà del proprio corpo. Tra l’attrice Pezzana e il corpo della Monaco c’è questo tipo di sospensione. Devo dire che questa volontà costante di sospensione del personaggio era ancora più evidente in No Passport. In quel caso l’operazione di archeologia inversa prevedeva una sorta di labirinto di figure shakespeariane. Questa condizione dell’attore viaggiava dentro i segmenti drammaturgici trascinati dai personaggi di Shakespeare, entrando e uscendo costantemente dalla dimensione del personaggio, sospendendo di volta in volta la delega che lo spettatore attua nei confronti dell’attore in quanto rappresentante di un personaggio a sostegno della sua presenza. In Dentro, Fuori, invece, l’intervallo è giocato più sul dispositivo scenico. La figura non è mai interamente visibile allo spettatore, se non nel momento in cui esce dall’involucro. La visione, per come è stata concepita sia nella scrittura scenica che nella partitura video, non concede mai allo spettatore la possibilità di vedere la figura nella sua pienezza.

Infatti c’è una curiosità immensa per questa figura appena lo spettatore entra nello spazio...

Certo… Dal vivo lo spettatore vede la sfocatura, un’ombra, un’entità lattiginosa. Ciò che uno vede meglio sono i frammenti della figura, realtà mediata dalla telecamera e riprodotta sugli schermi. In più, la segmentazione riguarda anche l’occhio che guarda un paesaggio frammentato, in questo caso contemporaneamente su tre livelli: la scatola ottica, il dj che ha una funzione performativa dentro la scena e le immagini mandate a circuito chiuso dalla telecamera su i tre televisori. Quindi l’idea di lavorare sul frammento è assolutamente consapevole e risponde alla volontà di non dare mai allo spettatore l’impressione di un paesaggio chiuso. Dò al pubblico la possibilità di comporre gli elementi distribuiti dentro la scena. attraverso la sua percezione personale.

Molto bella l’immagine sullo schermo con il nome della strada, appunto, ‘Giacinta Pezzana’...

Quella è una lapide, che chiude in un dentro simbolico l’azione. Nel prossimo spettacolo il presupposto dal quale partiamo è: in No passport l’attrice appare in scena, lo spettacolo si evolve e lei esce. Ma esce in un “dentro”, infatti la fase finale dell’azione svela che quel luogo in cui si compie l’azione non è altro che il retro di un teatro, il camerino di un’attrice. Quindi lei esce in scena. In Dentro, Fuori l’attrice appare già in un dentro concentrazionario ed esce in un “fuori”, un’immagine elettronica che allude a un fuori possibile, a una vita che scorre al di fuori del teatro. Allora ci siamo posti la domanda: dove potrà definitivamente uscire? Evidentemente in un ulteriore, tragico dentro, e in questo caso sarà lo spazio che detiene l’egemonia culturale dello spettacolo occidentale, la concezione dello spazio all’italiana. Quindi lavoreremo sulla prospettiva rinascimentale come ultimo dentro possibile.

Abbiamo trovato interessante l’intensità delle immagini in video. Specialmente il momento in cui Vanda mostra la sua bocca...

Innanzitutto vuole essere il richiamo al verso dantesco con cui l’attrice rompe il suo silenzio: “La bocca sollevò dal fiero pasto…”, quindi un elemento legato alla parola. Inoltre, è un’allusione all’immaginario baconiano: molti lavori di Bacon si basano sul principio di individuazione di un personaggio solitario, spesso incastonato in una sorta di realtà concentrazionaria. Era un elemento baconiano suggestivo. Nel primo momento, quando la telecamera si muove, Vanda è apparentemente una figura unitaria, ma cela il volto. Con i suoi spostamenti verso la telecamera fissa, l’attrice crea delle ‘auto-zoommate’ o campi lunghi ma continua sempre a negare il volto, che è per antonomasia l’identità stessa della persona. L’unico momento in cui ricompone l’immagine è quando esce dalla teca, quell’immagine iniziale dell’attrice Audrey Hepburn che inizialmente le cela appunto il volto.

Potresti precisare brevemente le immagini in loop che mostravano l’attrice che cammina accarezzando i muri colorati?

Ci interessava legare l’immagine al paesaggio urbano e a un’idea di accumulazione e accelerazione. C’è un principio ritmico, quello del loop, appunto. Era importante sottoporre alla percezione dello spettatore un altro dato che rompesse lo schema della scena, in questo caso un elemento circolare con un suo ritmo interno, un crescendo quasi ossessivo. Anche quella è la metafora di un luogo chiuso.

Anche i suoni erano di una notevole suggestione...

E’ una componente concertistica, ritmica ed emotiva. La forma del concerto è molto importante in questo lavoro. Tutta la partitura fisica e verbale dell’attrice è composta con una sequenza millimetrica sui passaggi musicali. Non c’è alcuna improvvisazione, se non nelle tonalità vocali dell’attrice. La partitura che compongo dal vivo selezionando, allungando, modellando i passaggi è tutta costruita in maniera precisissima. La partitura musicale dà il valore ritmico-emotivo alla percezione dell’evento, ma allo stesso tempo struttura l’azione. Inoltre, la possibilità di mettermi in scena è per lo spettatore un ulteriore elemento di fuga. Il dj non è solo una presenza che rappresenta se stessa, ma anche quella del demiurgo, di colui che tiene le fila di tutta la partitura.
Non c’è quindi una narratività lineare, ma un’emotività per frammenti. Se dobbiamo individuare una suggestione, potrebbe essere quella, in termini artaudiani, della crudeltà. Crudeltà dell’apparizione di un corpo non più giovanissimo, con una sua materialità e fisicità forti. E’ un corpo che viene mostrato e indagato in maniera ossessiva.

Il prossimo atto debutta quindi nel 2009...

Esatto. Lavoreremo, come dicevo, sulla prospettiva e il teatro all’italiana. In Dentro, Fuori il testo era un elemento paritario rispetto al resto. Anzi, siamo partiti dalla creazione della partitura fisica e del dispositivo scenico prima di affrontare il testo e la parola. Ma nel prossimo atto ci sarà un testo che ci permetterà di lavorare sulla suggestione di una tradizione che pone il testo come motore dell’azione. Il nostro sarà dunque un testo “monstrum”, senza gerarchie di genere, che rivela la sua mostruosità nel farsi dire da un’attrice altrettanto mostruosa.

Tomas Kutinjač

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