Il testo di Büchner è stato tradotto e rielaborato da Francesco Pititto con la regia e la realizzazione scenica di Maria Faderica Maestri. Lo scopo del lavoro è stato quello di guidare i pazienti psichiatrici lungo un percorso di presa di coscienza della parola e del gesto.“E’ come se dopo aver tolto l’ultima maschera fosse venuta via anche la faccia” così la regista spiega che la mente di questi attori segue una linea separata dalla quotidianità, rifiutando i ruoli che la vita ci assegna.
Parrucche e abiti candidi, volti imbiancati di talco sono i costumi e i trucchi scelti dalla Maestri; questo candore evidenzia l’intenzione büchneriana di criticare il mondo cortigiano e accademico sette-ottocentesco ed è sottolineato da sedie bianche, tipo ospedale, dove prendono posto gli attori. L’atmosfera è di profonda tristezza e sofferenza, accentuata da un’illuminazione fioca e dalla “melankonisch” musica di Schubert in sottofondo.
Lo spazio scenico, come tutta la regia è simbolista ed essenziale: un prato, realizzato con tappetini verdi, è il luogo dove si rotolano gli attori e rudimentali bambole sono gli oggetti dei loro giochi, che rimandano alla tragedia che queste persone hanno vissuto e vivono nel loro essere pazienti psichici, inconsapevoli della propria fisicità. Le voci si sovrappongono: alcuni attori recitano con il copione in mano, quale aiuto logistico per la memoria, sottolineando l’importanza che la parola acquista, non tanto come singola battuta quanto come germe della gestualità corporea.
Il matrimonio finale rappresenta gioia, festa e la possibilità, per queste persone, di riacquistare coscienza della propria esistenza come corpi e anime, nonostante la patologia.
Sami Karbik
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