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Osservazioni, schizzi, resoconti, pensieri imperiodici dalla stagione del centro di promozione teatrale La Soffitta e non solo. Servizi, approfondimenti e recensioni a cura del laboratorio di critica teatrale "Lo sguardo che racconta" condotto da Massimo Marino presso la Laurea Specialistica in Discipline Teatrali dell’Università degli studi di Bologna.


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giovedì 6 marzo 2008

Vincent Longuemare

La drammaturgia della luce di Vincent Longuemare

Intervista a Vincent Longuemare, giovane e stimato light designer francese, autore del progetto luci dello spettacolo “Leben” di Marco Martinelli.

Lei ha vinto il Premio Speciale Ubu 2007 per l’illuminotecnica dello spettacolo
“Sterminio” prodotto dal Teatro delle Albe. La motivazione è aver segnato, ormai da anni, con le sue luci gli spettacoli delle Albe con uno spirito da scenografo che integra il lavoro registico. Lighting designer è un termine che racchiude in sé molteplici significati e diverse competenze. Cosa significa per lei oggi essere un lighting designer?

Messe da parte le necessarie conoscenze in campo della fisica, dell’ottica, e della fisiologia della percezione, oltre a una solida e costante ricognizione nelle varie forme di espressioni artistiche, e aggiungendo a queste un regolare aggiornamento sui materiali disponibili, si potrebbe partire da lì per ragionare su cosa sia in fondo un light designer: credo si tratti di praticare un mestiere destinato a recuperare immagini dal mondo e a proporle in modo riconoscibile dando una forma all’ oggetto catturato dalla percezione. È probabile che prima della lingua, prima del nominare, il mondo si sia proposto ad essere guardato: una volta visto, lo si è potuto riconoscere, imparando a nominare, dividendo gli oggetti offerti alla visione. Credo che fare il light designer sia quindi praticare una lingua muta antecedente alla parola: una capacità particolare dell’immagine di attraversare la superficie e penetrare il mistero. Aprire piccoli varchi nel buio.

Come ha avuto origine la sua "passione" per il mondo della luce?“L’origine”, come ha dimostrato molto bene Courbet, è stato l’amore per una giovane attrice, che mi ha portato a scuola di teatro a Bruxelles, per seguirla; ma forse, ancora prima, c’è stata la luce cangiante del cielo sulle coste della Normandia…

Quali sono le personalità che hanno avuto maggior peso nella sua formazione e nel suo percorso professionale?
Sicuramente mi sono orientato verso questo mestiere grazie alle qualità umane del professore di illuminotecnica nella scuola belga “L’INSAS”, dove ho studiato. Era un alcolizzato totale come molti suoi colleghi, che non reggevano il sentimento della vita e cercavano luce e senso; era un membro di questa generazione che inventò il mestiere, che portò luce nel buio dei teatri.
Poi davvero è un fatto di incontri, della fortuna degli incontri con registi, di “matrimoni artistici”. A volte è un attore bravo che ti fa aprire porte sensoriali.
Di sicuro Thierry Salmon è stato maestro di visioni.

Come nasce l'idea di illuminare una scena?
Ciò su cui insisto con i miei studenti è il sentimento: dico loro di sedersi per ore in platea e mettere i loro sensi in ascolto, in osservazione e recuperare il sentimento della scena, quello ricercato dal regista come quello che emerge anche per caso; annotare gli spostamenti e la direzioni degli sguardi, gli accordi e disaccordi.

Ormai lei ha maturato qui in Italia un’esperienza decennale con il Teatro delle Albe, come si è evoluta in questi anni la sua vocazione artistica?
Lavoro ormai da vent’anni con decine di registi e coreografi e ho iniziato a rendermi conto di un terribile qui pro quo, questo andare avanti nel tempo come acquisizione di sapere ed esperienza: iniziano a chiamarti maestro, poi a ingaggiarti per risolvere questioni estetiche spinose. Ma in realtà più si va avanti meno si sa, più si dubita, mentre dall’esterno sono convinti che tu sappia! Invece se non vuoi morire artisticamente troppo presto è bene non sapere, è bene dimenticare, è bene non cercare di conquistare posizione e parlare da quel pulpito, è bene scegliere l’intuizione contro il sapere.
Fortunatamente è un mestiere in cui a ogni allestimento si deve, o meglio si dovrebbe ripartire da zero, più si va avanti, più è importante la dimensione del gioco, il rischio del gioco e non il presunto sapere, se no, finisce che fai sempre le stesse luci, guadagni in sicurezza economica forse, ma sei morto artisticamente.
É un rischio; e a volte capita di sbagliare soprattutto se perdi il contatto con il livello simbolico proprio. Ma è una cosa buona: quelli che ti condannano a morte non dovrai più frequentarli! Lo spazio si fa quindi più grande e pulito.

“Leben” è una commedia satirica e surreale, nella quale l’ironia si affianca a significati profondi. Come è stato possibile per lei creare un progetto luci che contribuisse a rendere quest’atmosfera?
Credo che sia stato pubblicato, insieme al testo, un mio intervento in merito al percorso della creazione luci per lo spettacolo “Leben”. Forse lì si trovano maggiori informazioni rispetto a quello che posso dire o ricordare adesso. Ciò che mi ricordo è stata l’estrema difficoltà nella realizzazione delle luci, particolarmente in merito alle “bande temporali” presenti, definite così da Marco Martinelli: davvero non capivo il suo discorso, non comprendevo. Ho dovuto quindi applicare questo metodo: in primo luogo dividere per riconoscere e nominare; in secondo luogo riunire per far comprendere. È stato un percorso lungo e analitico, razionale, così che a volte, nel rivedere le luci, ne percepisco l’assenza di sentimento!
Praticamente ho dovuto esercitare una dissezione dei materiali teatrali che venivano creati, spesso di notte, e poi ricucire il tutto insieme: il risultato è stato quello di creare due progetti luci indipendenti, due stili e materiali diversi ma con elementi di contatto e lentamente assimilarli l’un l’altro fino a fonderli.
Faticoso!!!!

Quanto è importante, secondo lei, che in Italia il sistema universitario si faccia carico, come avviene già da numerosi anni negli altri paesi europei, della formazione dei futuri light designer?

Sinceramente vedendo gli stagisti che arrivano dall’università o da altre rinomate scuole di formazione non mi risulta esse siano adatte alle necessità del mestiere del teatro. E la situazione peggiora velocemente dalla recente “virtualizzazione” della formazione: molte di queste realtà dimenticano di considerare la luce come una materia, spesso non danno importanza a imparare a guardare, a vedere, a riconoscere e a nominare ciò che si manifesta all’occhio. La luce, come il teatro, è una lingua di esperienza, difficilmente afferrabile in ambito universitario o scolastico. D’altronde è difficile mantenere un equilibrio costante tra teoria e pratica.

Quali sono secondo lei i requisiti necessari per avvicinarsi a questo mestiere?
Un grande interesse per l’umanità, l’uomo, il piacere di osservarlo, il desiderio di produrre cultura intesa come azione del pensiero in determinate condizioni economiche, sociali, politiche e culturali.
Infine, per la specificità del mestiere ritengo che una delle divisioni possibili del mondo sia tra chi sceglie di apparire e chi decide di starsene nell’ombra: sono funzioni complementari, bisogna solo trovare l’ombra giusta che fa per la tua luce.

Oltre al sapere tecnico, quanto è importante un’adeguata formazione culturale per la sua professione?
È decisiva. La curiosità è fondamentale: non bisogna mai smettere di guardare immagini, pitture, sculture, fumetti, film, camminare per strada con occhi e sensi aperti, studiare l’asse fondamentale tra etica ed estetica, tra società e forme di rappresentazione.

Quale consiglio pensa di poter dare a un giovane che voglia intraprendere la professione del light designer?
Non considerarlo una professione ma una forma possibile di apprendimento.
Un percorso di esperienze ed incontri, di comprensione dell’altro.

Andrea Nao

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