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Osservazioni, schizzi, resoconti, pensieri imperiodici dalla stagione del centro di promozione teatrale La Soffitta e non solo. Servizi, approfondimenti e recensioni a cura del laboratorio di critica teatrale "Lo sguardo che racconta" condotto da Massimo Marino presso la Laurea Specialistica in Discipline Teatrali dell’Università degli studi di Bologna.


Direttore: Massimo Marino

Caporedattore: Serena Terranova

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Hanno scritto: Valentina Arena, Stefania Baldizzone, Valeria Bernini, Elena Bruni, Alessandra Consonni, Alessandra Coretti, Elisa Cuciniello, Irene Di Chiaro, Serena Facioni, Antonio Guerrera, Sami Karbik, Tomas Kutinjač, Roberta Larosa, Nicoletta Lupia, Valentina Miceli, Paola Stella Minni, Andrea Nao, Saula Nardinocchi, Vincenzo Picone, Giusy Ripoli, Maria Pina Sestili, Giulia Tonucci

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Questo blog è realizzato dal laboratorio in completa autonomia dal Dipartimento di Musica e Spettacolo dell’Università di Bologna.




giovedì 6 marzo 2008

Tra asinelli, marionette e cori improvvisati

LE ALBE RACCONTANO LA NON-SCUOLA

Dal 28 gennaio al 1 febbraio, presso i Laboratori DMS, il Teatro delle Albe ha regalato ad alcuni studenti universitari un seminario sulla speciale e decennale attività della non-scuola.


28 GENNAIO

Siamo radunati nel teatro dei laboratori DMS.
Lorenzo Donati, testimone fisico della non-scuola, ex allievo diventato oggi guida del laboratorio “Lo spettatore con il taccuino in mano”, comincia a delineare quelle che sono state le linee teoriche da cui è partita l’attività nel 1991 su iniziativa di Marco Martinelli e Maurizio Lupinelli. “La non-scuola, allora, non si chiamava così” comincia Martinelli, ricomponendo i tasselli della sua esperienza. Nel 1983 insieme a Ermanna Montanari, Luigi Dadina e Marcella Nonni, fonda il Teatro delle Albe, compagnia che sceglierà di impostare il proprio percorso teatrale sul connubio fra tradizione e innovazione. Martinelli oltre a essere il regista è anche l’autore dei testi che vengono scritti o ex-novo o riadattando i classici, ispirandosi agli antichi e al tempo presente, ma sempre pensando le storie per gli attori che diventano veri e propri co-autori degli spettacoli. Dopo circa otto anni di attività a Ravenna, il Comune assegna alla compagnia la gestione dei due teatri della città, il Rasi e l’Alighieri. Il gruppo farà del primo il cantiere del nuovo e del secondo la fucina della tradizione, al fine di creare non un teatro stabile identico agli altri presenti sul territorio nazionale, ma un teatro “corsaro”, emblema di una pratica di “coltura” teatrale, che ha uno dei suoi punti di forza nella non-scuola.
L’attività dei laboratori all’interno delle scuole medie secondarie non ha finalità prestabilite e non consiste nell’insegnamento (perché il teatro non può essere insegnato secondo le Albe), come sottolinea il nome che le è stato attribuito: è un gioco condiviso, nel senso più teatrale del termine.
Alla domanda: “Perché avete scelto proprio gli adolescenti come punto di riferimento?”, Marco ed Ermanna hanno risposto che in questa età i ragazzi sono come “magma in movimento… possono essere tutto non essendo ancora ingessati come gli adulti. Possono e devono sperimentare prima di capire cosa saranno.” Martinelli parla non di "mettere in scena”, ma di “mettere in vita” i testi antichi: resuscitare Aristofane, non recitarlo. Si parte con il fare a pezzi il testo: disossare. Dopo aver rubato a Shakespeare, a Sofocle, ad Aristofane lo spunto iniziale, si tenta di costruire, assieme ai ragazzi, un terreno fertile di energie. Non si tratta né di un criterio di fedeltà né di sovversione al testo, bensì di creazione continua. In questo scenario, la guida svolge un ruolo fondamentale, in quanto fa da medium fra il “morto” e il “vivo”, fra il classico teatrale e l’adolescente.
A questo punto ci viene illustrato il Noboalfabeto, che non è un manuale, ma un approccio che la guida, l’adulto, utilizza per entrare in empatia con il ragazzo. “Attraverso lampi, illuminazioni”, spiega Ermanna, è possibile ricostruire le fondamenta della non-scuola “nel segno di Dioniso”, il Dio della turbolenza sessuale, dell’estasi data dal vino e dal suono dei tamburi; un Dio fuori di testa, spudorato, osceno.


30 GENNAIO

“Allora, cosa ne pensate del Noboalfabeto? Anche qualche sensazione di bassa cucina. Qualsiasi cosa!”. Domina il silenzio nel circolo disegnato dalla ventina di sedie disposte sul pavimento nero del teatro, dove sono rannicchiati gli altrettanti studenti iscritti al seminario. Ci si guarda negli occhi e ci si chiede silenziosamente aiuto. Ma la tensione si abbassa immediatamente. È evidente che siamo in un luogo tangenziale all’università, ma non accademico, e che la domanda fatta da Marco Martinelli non è un’interrogazione. In pochi hanno letto il Noboalfabeto, questa sorta di filo rosso che procede dalla A alla Z, spiegando cosa sia la non-scuola e quali siano i suoi principi non dogmatici e le sue finalità sempre in fieri.
Si ricomincia tutti insieme dalla A di Asinità: una sola parola a partire dalla quale, però, si potrebbe spiegare l’intero percorso che il Teatro delle Albe ha intrapreso con i ragazzi. Un percorso che procede in negativo per arrivare a qualcosa di assolutamente unico: la non-scuola, infatti, ha come destinatari dei non-attori, gli adolescenti che, attraverso delle non-tecniche, vengono accompagnati da una guida, l’adulto, lungo un sentiero che “si allarga, si asfalta e si costruisce insieme” e che conduce all’unico e rituale spettacolo finale.
Si leggono poi insieme altre due parole chiave: Marionetta e Improvvisazione, entrambe antipsicologiche (nel senso, spiega Marco, della piccola psicologia omologata e omologante) e antinaturalistiche, volte alla riscoperta di una natura selvatica e originaria dell’essere teatranti, per andare a scovare lo stupore, l’incanto, la sorpresa di se stessi e delle proprie possibilità. È un cammino anarchico che mette la guida al servizio dell’ “adolescente spappolatore”, di questo “re sbilenco” che è in grado, inconsapevolmente, di rievocare Giordano Bruno, Aristofane o Alfred Jarry, come ci spiega Ermanna.
Sul finire dell’incontro le nostre due “guide” ci raccontano del lavoro su I polacchi, tratto dall’Ubu roi di Jarry, della genesi della messa in scena e di quanto sia stata importante la presenza del coro dei Palotini. Nello spettacolo ravennate, infatti, il coro era formato dai ragazzi prima appartenenti alla non-scuola e poi traghettati alla Bottega delle Albe. Il lavoro è stato affrontato anche a Chicago, in Senegal (dove è diventato Ubu bur) e a Scampia (dove si è trasformato in Ubu sotto tiro). Nei primi due casi il coro era composto da ragazzi del luogo e la resa scenica è stata vincolata dalle loro capacità e dalle suggestioni che erano in grado di fornire. Nel caso, invece, di Scampia, Ubu sotto tiro ha rappresentato il frutto di un’attività laboratoriale più lunga e dai connotati molto diversi.
L’incontro si è chiuso con la visione delle miniature elaborate da Ermanna a partire dal montaggio delle incrostazioni e dei disegni dello stesso Jarry con le foto dei vari spettacoli.


31 GENNAIO

Dopo averci illustrato, negli incontri precedenti, le linee teoriche della non-scuola e le sue modalità espressive, cercando più volte di differenziare l’attività svolta all’interno degli istituti scolastici dalla Bottega delle Albe, Marco ed Ermanna decidono di proiettare due video. Il primo mostra un servizio sul progetto “Arrevuoto”, attraverso la ricostruzione dell’ultima fase del lavoro e alcune interviste; il secondo è Che cosa sono le nuvole?, film del 1967 di Pier Paolo Pasolini, in cui prende corpo quell’idea della Marionetta esposta il giorno precedente.
“Arrevuoto” è un progetto teatrale che, nel 2005, ha portato il Teatro delle Albe a misurarsi con il difficile quartiere napoletano di Scampia.
Il gruppo protagonista del lavoro, ci spiega il regista, si presentava come un magma eterogeneo formato da alcuni ragazzi del quartiere stesso, da un gruppo proveniente da un liceo di Napoli e da rom; ma l’evidente lontananza iniziale è stata immediatamente superata dal lavoro collettivo.
Le differenze tra la non-scuola e il laboratorio di cui Marco ci racconta si palesano velocemente: il lavoro condotto con gli adolescenti napoletani terminava con un evento che contava al suo interno un numero indefinito di non-scuolini, mentre a Ravenna i vari gruppi vedevano la presenza di quindici, venti ragazzi al massimo; “Arrevuoto” prevedeva che la rappresentazione venisse replicata, mentre l’esito finale del laboratorio della non-scuola è un unicum; in una circostanza come quella napoletana, la guida doveva essere anche regista (contrariamente al suo ruolo consueto nelle attività non-scolastiche) e doveva esplicitare la poetica che conduce alla realizzazione finale dello spettacolo. Ultima ma fondamentale differenza è che “Arrevuoto è stata una produzione del Teatro Mercadante di Napoli affidata al Teatro delle Albe, il che ha generato un’eco e un’aura di aspettative molto diverse rispetto a quelle che può rappresentare uno spettacolo della non-scuola: alla prima dell’Ubu sotto tiro, infatti, hanno partecipato anche critici e istituzioni importanti, fra cui il Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, e il sindaco di Napoli, Rosa Russo Jervolino, il che, ovviamente, ha conferito tutto un altro valore al lavoro, che è diventato, non solo il frutto di un’attività laboratoriale fine a se stessa, ma anche un momento in cui il Teatro delle Albe si è esposto, ha mostrato i suoi principi di base e il suo modo di giocare teatralmente con i ragazzi.
Semplificando, Marco ed Ermanna affermano che il percorso che porta alla non-scuola e quello che conduce ad “Arrevuoto” sono identici per quel che riguarda il lavoro con gli adolescenti ma diversi nella ricezione del risultato finale.
Questo terzo incontro sarebbe dovuto essere l’ultimo del seminario. Marco, però, non sembra essere soddisfatto e ritiene che sia necessario agire nella pratica ciò che, fino a ora, è stato esposto solo teoricamente. Così si inizia a intonare insieme un’ottava del Boiardo e ci si dà appuntamento all’indomani con la domanda: “Chi porta il vino?”.


1 FEBBRAIO

Il primo febbraio quello che doveva essere un semplice seminario teorico è diventato qualcos’altro: un’esperienza coinvolgente, dissestante e rivoluzionaria.
Risulta molto difficile descrivere ciò che è avvenuto per una persona che ha partecipato al piccolo moto. Si tenterà quindi di farlo con la maggiore oggettività possibile.
Il gruppo appare leggermente più scarno rispetto ai giorni precedenti. Su una panca del teatro DMS hanno trovato posto alcune bottiglie di vino rosso recuperate dagli studenti e portate perché facciano da incentivo-carburante per iniziare: l’idea non è, ovviamente, quella di perdere la lucidità, ma solo di scaldarsi con la maggiore cura possibile per il luogo ospitante.
Un bicchiere si beve prima di cominciare. Tutti insieme, in piedi, si inizia a intonare un testo comune portato da Marco e già sperimentato in altre occasioni. Si battono piedi e mani e si mantiene un ritmo uniforme, mentre si ripetono, il più fedelmente possibile, i gesti e le intonazioni vocali di colui che, al centro del cerchio, fa da corifeo di questo coro improvvisato e sorprendente.
Marco lascia il suo posto e invita chiunque ne abbia voglia, in assoluta libertà, a entrare. Dopo un inevitabile momento di imbarazzo, si comincia.
I movimenti mutano da persona a persona: c’è chi danza, chi salta, chi cammina, chi si accompagna con mani e piedi, chi si butta in ginocchio o a terra, chi ruota su se stesso; ma qualsiasi gesto fatto al centro del cerchio viene ripetuto dal suo perimetro. Anche i più timidi vincono i loro timori e il testo di base si arricchisce di nuove storie improvvisate: entrano in scena il coinquilino mussulmano che non beve vino (e giù il secondo bicchiere!), la cara zia Franca che passeggia sul suolo di Marte, la Luna, in tutte le sue simbologie, la Guerra e la Fortuna, tutti i tipi di paura e di rabbia. Ogni cosa potrebbe rientrare in questo grande calderone umano, perché ogni paradosso, apparentemente privo di senso, acquisirebbe un suo specifico valore. Il gruppo è diventato una cosa sola, un solido folle coro senza musica e senza partiture prestabilite.
Alla fine la stanchezza si accompagna a una particolare ebbrezza (non provocata dal vino bevuto, ma dell’esperienza vissuta insieme): la sensazione di possedere una teatralità innata e spensierata, una teatralità asinina che non va perduta, ma conservata gelosamente, contro qualsiasi gelido ordine mentale e al di là di cosa si voglia fare delle proprie vite.
In quelle due ore ogni ragazzo sente di aver messo qualcosa di sé in condivisione e di essersi appropriato di qualcosa di qualcun altro. In quelle due ore è avvenuto qualcosa di individuale e collettivo, contemporaneamente, qualcosa di coinvolgente, dissestante, rivoluzionario. In quelle due ore è avvenuto qualcosa di praticamente indescrivibile.

Nicoletta Lupia e Maria Pina Sestili

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