G: GUIDE. Non ci sono padri, non ci sono maestri nella non-scuola. Solo guide che conducono gli adolescenti verso lo spettacolo, che favoriscono il gioco. Chi sono le guide nella non-scuola allora? Possono essere registi, possono non esserlo. Quello che li distingue è il loro “stare in mezzo”, non come acqua stagnante, bensì a dissolvere le superfici apparenti, tra gli adolescenti e la Tradizione.
L’incipit scelto è tratto dal “Noboalfabeto” stilato per la non-scuola di Marco Martinelli.
La scelta della parola “guida” puntualizza uno scarto che sembra più un cavillo che una reale differenza: lo scarto esistente tra una “guida” e un “maestro”.
Nel più classico strumento per la navigazione marittima, la bussola, l’indicazione dei quattro punti cardinali è sovrapposta al disegno della rosa dei venti. Al vento indicato come principale, al vento guida, è stato attribuito il nome di Maestrale: vento maestro. L’esempio, anche se estraneo al contesto teatrale, rivela come l’uso dei due vocaboli sia non strettamente sinonimico, ma intuitivamente sovrapponibile a livello semantico.
Descrivere il proprio ruolo attraverso un’impercettibile differenza di senso non estromette con sufficiente convinzione la relazione di docenza–discenza. Favorire, guidare il gioco: anche se l’insegnamento è esperito e non impartito, non se ne elimina la sua intenzione pedagogica.
Ancora dal “Noboalfabeto”:
B: BUGIA. L’etimologia ci rivela la presenza del male nella parola bugia: dall’antico provenzale bauzìa al franco bausì, ovvero “malvagità”, “male radicale”. Ma nell’etimo del suo più significativo sinonimo, rappresentato dalla parola menzogna, c’è l’eco del verbo latino mentiri, “immaginare”, poi “fingere”, da mens mentis, mente […].
Da un altro alfabeto:
B: BUGGERARE. Verbo derivante dal termine Buggero, nome col quale si indicavano gli appartenenti alla setta eretica medievale dei bogomili , oggi usato per dire “imbrogliare”, “raggirare”.
Nelle sfumature di senso di questo vocabolo è rintracciabile una certa dose di furberia, forse non proprio estranea alla volontà di camuffare un’inclinazione pedagogica attraverso concetti accattivanti come “non-scuola”, “improvvisazione”, “gioco”, “marionetta” (tutti rigorosamente presenti all’appello nell’alfabeto martinelliano).
Circuitare i testi della Tradizione attraverso la ludicità innata in ogni essere umano.
Non preoccuparsi degli stili e delle poetiche.
Liberare il fuoco della creazione per rendere un adolescente coautore e protagonista di un percorso.
Far esplodere quell’energia immaginifica, irriverente e iconoclasta che gli è propria.
Questi postulati, dotati certamente di fascino, sono però consumati dall’uso che ne è stato fatto per ribadire a tutti i costi la propria alterità ottenendo, al contrario, un effetto normalizzante. Così, ciò che si vuole eversivo diventa stereotipo e ciò che si vuole originale suona ingenuo. E questa, è un’ingenuità che viene tramandata alimentando un repertorio di luoghi comuni.
Esempio.
Marco Martinelli è stato il primo protagonista di una serie di incontri, organizzati nei laboratori DMS, dedicati all’annosa questione della formazione dell’attore. La conferenza è stata la conclusione del seminario teorico tenutosi nei giorni precedenti: l’esigua platea era quindi composta in maggioranza dai partecipanti. Durante il consueto spazio riservato alle osservazioni o alle domande degli ascoltatori, uno dei “seminaristi” alza la mano: “Volevo dire che, sì insomma… l’esperienza con la non-scuola è stata molto importante per il mio percorso e mi ha fatto conoscere tante persone che condividono con me delle scelte diverse (?). Perché sì insomma… è una questione di sensibilità (??)… cioè, di una sensibilità diversa (???)… altra.”
Silenzio in sala. L’intervento è stato fondamentale per decidere la conclusione dell’incontro.
Speriamo che non tutti gli allievi siano lo specchio dei difetti del maestro.
Per definire meglio il “martinellismo”, si può raccontare un ulteriore aneddoto (una “martinellinata”). Durante l’ultimo giorno del medesimo seminario, Marco Martinelli, ha invitato i partecipanti a portare del vino per poi coinvolgerli in un esercizio teso a recuperare la teatralità innata e spensierata che ognuno di noi, in quanto triste adulto, ha perso con l’abbandono dell’adolescenza.
Disposti in cerchio, si comincia intonando un testo comune. Poi si battono mani e piedi seguendo un ritmo uniforme, mentre si ripetono gesti e intonazioni vocali di colui che, posto al centro, fa da corifeo a questo gruppo che si è sorprendentemente, improvvisamente e meravigliosamente riscoperto coro.
Dal mio alfabeto:
V: VINO. Era evidentemente buono.
Bando all’ironia molesta.
La relazione docente–discente ha una natura privata ed elettiva. E non è positiva o negativa in sé, piuttosto costruisce la sua connotazione attraverso la “fertilità” dell’allievo e dell’insegnante (o guida, o maestro).
Forse è eccessivamente categorico continuare a sostenere che il teatro non si possa insegnare. L’ostinata ritrosia riservata al concetto di Insegnamento è un’obsolescenza ideologica legata a un pensiero pseudo–libertario vecchio di trent’anni.
Nella parola “insegnamento” si comprimono abitualmente significati legati alla costrizione, all’accademismo, a una pedanteria mortificante. Così l’insegnante assume le fattezze anacronistiche del precettore, dell’istitutore.
Quello esistente tra Maestro (o Guida) e Allievo, non è un legame imposto da ruoli istituzionali socialmente riconosciuti. È una “relazione clandestina” generata da un incontro casuale.
Serena Facioni
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