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Osservazioni, schizzi, resoconti, pensieri imperiodici dalla stagione del centro di promozione teatrale La Soffitta e non solo. Servizi, approfondimenti e recensioni a cura del laboratorio di critica teatrale "Lo sguardo che racconta" condotto da Massimo Marino presso la Laurea Specialistica in Discipline Teatrali dell’Università degli studi di Bologna.


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giovedì 28 febbraio 2008

Aleppe!


Uno sguardo dall’interno sul laboratorio di Riccardo Caporossi

Un lavoro collettivo che parte dalla “Divina Commedia” per arrivare alla costruzione di un’azione autonoma e originale in cui il disegno scenico del regista, e le “interferenze” degli allievi trovano soluzioni coerenti.

***


Il primo giorno non manca nessuno; i diciannove studenti del DAMS ( e non solo, tanto che tra di loro campeggia, alto e magro, uno studente di ingegneria!) che si sono iscritti al laboratorio di Riccardo Caporossi, “Aleppe!”, sono pronti ad immergersi in sei ore di duro lavoro quotidiano, per dieci giorni consecutivi. Chi scrive, non è tra questi; l’informazione, certamente non è influente ai fini del resoconto sull’attività svolta, ma lo è per riflettere su come a volte, inconsapevolmente, il teatro ci trascini nei suoi meccanismi più intimi, anche a prescindere dalle nostre volontà, e su come alcune occasioni fortuite, si rivelino illuminanti più di tante altre che invece abbiamo fortemente cercato. Cosa è successo in quelle prime sei ore di lavoro? Apparentemente nulla, tanto che alla fine della giornata, le facce che si vedono in giro, sono interdette, talvolta imbronciate: Dove è finito il training dell’attore? Gli esercizi sulla respirazione sono stati banditi dal teatro? Dov’è il testo? Ci sarà una componente di improvvisazione? Cosa faremo se il disegno dello spettacolo è già compiuto? E poi…chi é questo regista che parla così sommessamente, dalle sembianze beckettiane (neanche tanto vaghe), che arriva con la sua professionalissima ventiquattro ore piena di appunti e di disegni, che risponde pacatamente anche quando lo subissiamo di domande, che sembra quasi volerci tenere celato il senso di quello che andremo a fare? Così, sulla scorta di questi amletici dubbi, il secondo giorno il numero dei partecipanti si è drasticamente ridotto, da diciannove a undici…dodici, compresa me che, come anticipavo, ero lì con uno scopo differente, osservare il lavoro condotto da Caporossi per la mia tesi di laurea. Cosa avrà fatto fuggire a gambe levate dal laboratorio gli altri? Il mio ruolo di osservatrice esterna, ha suscitato questa intuizione: a provocare la defezione non è stato ciò che si è fatto il primo giorno, piuttosto quello che non si è fatto… niente esercizi sulla respirazione, né sulla voce, nessuna accenno alla preparazione fisica…Ma cerchiamo di chiarire meglio questo punto. Superati i preamboli delle reciproche presentazioni, il regista propone un’esercitazione/gioco di gruppo il cui scopo è quello creare una catena coerente e ritmicamente determinata di azioni , senza fratture o battute d’arresto…sembra facile, in realtà non lo è. Ma ( finalmente!) il senso del lavoro inizia lentamente a svelarsi; si parte dalla lettura di un estratto del settimo canto dell’Inferno dantesco, che racconta le tristi pene degli avari e dei prodighi – peccatori per eccesso – e dalla quale si apprende che “Aleppe!” è un’invocazione che i dannati pronunciano, ma della quale non si conosce il preciso significato, un vero rompicapo anche per i critici danteschi più ferrati. L’ipotesi interpretativa privilegiata è quella secondo la quale “Aleppe!”, sia parola che evoca la prima lettera dell’alfabeto ebraico “aleph” e dunque l’idea dell’origine del tutto. Ma cosa ha a che vedere tutto questo con gli enormi sacchi di iuta che d’improvviso Caporossi ha portato sul palco del teatro? Apparentemente nulla; il compito dei partecipanti ora, è quello di creare delle improvvisazioni in coppia, avendo a disposizione due elementi: il sacco, e una “battuta”: “Perché tieni? Perché burli?”, ovvero le domande che i dannati del settimo canto dantesco si ripetono in una cantilena estenuante. Il secondo giorno, gli strenui allievi resistono, ma la defezione di altri ha fatto saltare il gioco delle coppie; come rimediare a tutto questo? Mi viene gentilmente chiesto di prestarmi, solo per quel giorno, a sostituzione di una persona; ancora non sapevo che quella persona era solo l’ultima di quelle che non sarebbero venute più, e che la mia sostituzione sarebbe diventata permanente, aggregandomi così definitivamente nella schiera dei prodighi o degli avari, a seconda delle esigenze del caso. I primi giorni di lavoro passano cercando e provando diverse soluzioni sceniche proposte dagli allievi: alcune di queste sono le stesse che, ripulite dalle loro imperfezioni, vengono scelte per essere intessute nella trama dello spettacolo. Perchè nel frattempo infatti, qualche velo è caduto per rivelare le apparenti, nebulose finalità di questo laboratorio: l’idea è quella di costruire uno spettacolo in cui un primo momento - il cui disegno è già ben chiaro nella mente del regista - si congiunga con un altro momento dominato dalle improvvisazioni proposte dagli allievi, cercando però tra questi due istanti una soluzione di continuità, continuità scandita, oltre che dalla presenza rituale dei sacchi in scena, anche dalle musiche e dai ritmi, scelti non come accompagnamento musicale alle azioni, ma come tempo all’interno del quale le azioni stesse si svolgono. È così che progressivamente prende forma la prima parte dello spettacolo: un vagare di anime in pena estenuante e senza consolazione, scandito dalla presenza di due guardiani che indicano la direzione del percorso, determinano i momenti di pausa e quelli di movimento, un ingranaggio che si muove all’interno del contesto sonoro creato dalle musiche di Luciano Berio. Ma qual è l’anello di congiunzione tra questi due momenti? È l’idea del Male, un Male atavico e imprescindibile che vive annidato nel profondo del cuore dell’uomo; allora, ecco che all’invocazione “Pape Satan, Pape Satan, Aleppe” l’ingranaggio infernale si blocca, prodighi e avari si trasformano in deportati nei campi di concentramento - atmosfera nella quale ci introduce il contesto sonoro, l’operetta di Shoenberg “Il sopravvissuto di Varsavia” - che in un crescendo di volumi e disperazione, trascina lentamente tutti fuori dalla scena, per poi ripresentarci sotto spoglie diverse. La seconda parte dello spettacolo coincide idealmente con la seconda fase dell’attività laboratoriale. Dopo i primi giorni trascorsi a montare gli ingranaggi del “meccanismo” e a stimolare gli allievi nella ricerca autonoma di soluzioni scenicamente efficaci, ora si procede ad una scrematura di queste stesse azioni e ad una loro “pulitura” per renderle fattibili. Alcune soluzioni vengono preferite ad altre; sono soprattutto quelle che creano automatismi e ripetitività nelle azioni, ad essere promosse e imbastite tra di loro cercando di uniformarle nel ritmo. Di volta in volta si vedono dunque sulla scena; una catena di montaggio di esseri deprivati della loro umanità, insaccati e collocati su un immaginario nastro trasportatore - molto presente però concettualmente nel ticchettare costante di un metronomo - un re che pomposamente sfila su un tappeto che due servi fanno a gara per stendergli ai piedi, una solitaria viaggiatrice che si flagella, una vittima e una carnefice indissolubilmente legati da una corda e dal fardello della loro pena, un “sacco” che trascina a peso morto il corpo di un uomo. La difficoltà di queste azioni risiede soprattutto nel loro “montaggio”. Era infatti necessario che, per non interrompere il senso di ciclicità dell’azione, sapientemente costruito nella prima parte del lavoro da Caporossi, anche le improvvisazioni avessero una loro ritmicità, sempre la stessa; incalzante e inesorabile. Sono state provate diverse soluzioni fino a quando sì è finalmente trovata la sequenza che maggiormente rispondeva a questa necessità. L’ultima fase del lavoro è costruita sul processo di “espiazione” del peccato, cercando anche in questo caso, soluzioni sceniche coerenti. E’ così che dopo un’ultima invocazione al grido di “Aleppe!” cui fa seguito, ora come in precedenza, la discesa di una fioca lampadina attorno alla quale si riuniscono i dannati, comincia il processo di “conversione” da uno stato all’altro. Tutti, accomunati dal loro essere peccatori, sono ora legati dall’urgenza del cambiamento, cambiamento che paradossalmente, coincide con l’uniformarsi della loro apparenza; infatti, cambia il loro stato, ma la loro immagine è reiterata con forza sulla scena. Tutti, con il sacco, preparano una sorta di sudario nel quale avvolgersi e con il quale coprirsi, per poi cominciare un lento giro sulla scena scandito d una sequenza codificata di passi. Due figure “altre” rispetto a queste, avanzando dai lati della platea, attraversano diagonalmente la scena; il richiamo appena percettibile di un campanello, avverte i dannati della loro imminente uscita; accodandosi a queste due figure, abbandonano la scena. E’ attraverso questo lavoro che gli allievi hanno potuto confrontarsi con le modalità sceniche e le soluzioni teatrali più praticate da Riccardo Caporossi, tanto nella sua attività laboratoriale, quanto nel suo lavoro come elemento fondante di un duo artistico che da trentasette anni è sulle scene di tutti i teatri, Rem e Cap, la “formazione” cui da giovanissimo, Caporossi ha dato vita con Claudio Remondi. Il senso dell’immobilità, il tentativo di veicolare un messaggio anche attraverso canali alternativi al parlato, la costruzione di un lavoro in collettivo che però desse spazio anche alle esigenze e alle proposte degli allievi, una drammaturgia dello spazio che fa di quest’ultimo un elemento con il quale relazionarsi e non uno sterile cornice per le azioni…il risultato finale di uno spettacolo con una sua coerenza interna, che però è riuscita ad arrivare anche alla platea…questi sono stati i “dettati” artistici di “Cap”, questo il succinto resoconto di dieci giorni di duro lavoro, di polvere, di crisi asmatiche provocate dai sacchi di iuta…alla fine, i dodici temerari che hanno resistito strenuamente fino all’ultimo, sono soddisfatti. Anche la mancata osservatrice esterna.

Giusy Ripoli.

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