DARE AL BUIO, di Letizia Russo, regia di Renzo Martinelli, produzione Teatro i.
Mutuare dalla cronaca un fatto e trasformarlo in poesia; recitarla come una fiaba, narrata attraverso personaggi che non hanno bisogno di nomi ma a cui basta un’iniziale per riconoscersi. Nel buio. Nello spazio senza uscite e senza luce, dove la fantasia non ha potere infinito, ma si sgretola quando la bambina, ormai adulta, non ha più voglia di giocare. E così l’uomo-artefice soccombe, l’orco della storia cade di fronte all’inevitabile, più volte immaginato, sempre negato, momento di ritorno alla luce. Nel mondo alla rovescia, un metaforico Polo Sud dove i bicchieri cadono dal pavimento al tavolo e la pioggia dalla terra al cielo, la giovane reclusa trascorre un tempo sospeso, ma che si determina continuamente attraverso elementi inoppugnabili; inevitabili come il primo sangue mestruale, come il volto cambiato di fronte allo specchio, come lo scorrere delle lancette di un orologio. Il tempo acquista un andamento circolare, scandito da attimi che determinano la fine e, allo stesso tempo, l’inizio di un sogno che scivola nel buio della realtà, quella di fuori, per poi tornare dentro, a ripercorrere ciò che è stato: quella storia per cui il secondo che prelude alla morte pesa quanto otto anni di vita, rubata. La drammaturgia di Letizia Russo solleva il mero episodio dal banale giudizio, per donargli il significato del rito, di iniziazione ed espiazione, moltiplicando i punti di vista e in essi, rilevare i momenti in cui avviene la krìsis, la scelta tragica. Il valore classico è brandito nelle lame affilate dei coltelli impugnati dalla vittima e dal suo carnefice, in uno scambio di ruoli che travalica la dimensione psicologica e reclama, piuttosto, il sacrificio redentore. Una storia che ammicca per certi versi anche a suggestioni proprie dell’universo di Lewis Carroll, dal quale sembra emergere direttamente la figura X, un fool straniante e onnisciente, improbabile consigliere e guida verso una dimenticata libertà. La scena, affidata alla regia di Renzo Martinelli, pone l’azione su un praticello verde, a metà tra esterno e interno, ornato da oggetti kitsch e diviso da due lunghe lastre di vetro semoventi, dalle quali scorre una pioggia incessante; ideali filtri visivi e narrativi della vicenda, esse creano inoltre una barriera tra lo spazio della “casa stregata” e il fuori, in una dinamica continua di rivelazione e occultamento, di passaggi e ritorni. Un dispositivo scenico, insieme alla componente sonora, costantemente in primo piano, ma in perfetto equilibrio con la presenza dei i tre attori: Federica Fracassi, Gabriele Benedetti e Paolo Cosenza. Essi danno voce ai temi portanti della pièce, spesso impegnative dialettiche filosofiche come quella tra libertà e schiavitù, paternità e maternità, realtà e apparenza, attraverso una recitazione sfuggente e mai sopra le righe; figure il cui movimento è, inoltre, accuratamente studiato in relazione a un uso sapiente delle luci. Attraverso questi elementi, lo spettacolo indaga quel confine tra realtà e immaginazione che spesso è la vita stessa a varcare, silenziosamente; e quando ciò avviene le categorie saltano, buoni e cattivi non esistono più, e la finzione del lieto fine stride con il fine oggettivo. Ma è pur sempre la fine di una fiaba.
Giulia Tonucci
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