Chi siamo

Osservazioni, schizzi, resoconti, pensieri imperiodici dalla stagione del centro di promozione teatrale La Soffitta e non solo. Servizi, approfondimenti e recensioni a cura del laboratorio di critica teatrale "Lo sguardo che racconta" condotto da Massimo Marino presso la Laurea Specialistica in Discipline Teatrali dell’Università degli studi di Bologna.


Direttore: Massimo Marino

Caporedattore: Serena Terranova

Redattori: Beatrice Bellini, Lorenzo Donati, Alice Fumagalli, Francesca Giuliani, Maria Cristina Sarò

Web designer: Elisa Cuciniello

Segreteria organizzativa: Valeria Bernini, Tomas Kutinjac

Hanno scritto: Valentina Arena, Stefania Baldizzone, Valeria Bernini, Elena Bruni, Alessandra Consonni, Alessandra Coretti, Elisa Cuciniello, Irene Di Chiaro, Serena Facioni, Antonio Guerrera, Sami Karbik, Tomas Kutinjač, Roberta Larosa, Nicoletta Lupia, Valentina Miceli, Paola Stella Minni, Andrea Nao, Saula Nardinocchi, Vincenzo Picone, Giusy Ripoli, Maria Pina Sestili, Giulia Tonucci

ATTENZIONE

Questo blog è realizzato dal laboratorio in completa autonomia dal Dipartimento di Musica e Spettacolo dell’Università di Bologna.




martedì 29 aprile 2008

Corpi sociali. Il teatro come diversità

Dagli anni Novanta del secolo scorso forme teatrali di ricerca esplorano le realtà del disagio sociale. L’handicap, la malattia, il carcere diventano spazi creativi per nuove dimensioni teatrali.


L’ideologia politica di denuncia si realizza secondo poetiche distinte nell’individualità d’ogni compagnia, in cui l’intento comune è quello di dar voce alla condizione muta dell’emarginazione sociale. In una società in cui dobbiamo sentirci conformi a un’estetica plastificata, il teatro attraverso la sua pura provocazione, propone una visione differente, un’estetica distorta di corpi imperfetti. Non esiste un concetto formale in cui classificare la diversità, bensì esiste l’incontro tra le diversità che riflettendosi l’una nell’immagine dell’altra si concedono la possibilità di non restare nel silenzio. In questi casi ci s’interroga sul ruolo del teatro: uso terapeutico del teatro o terapia teatrale? La terapia teatrale (arte-terapia) è praticata da quelle strutture che operano nel sociale allo scopo di educare e riabilitare i disabili attraverso il teatro; l’uso terapeutico del teatro, invece, è l’azione benefica del fare teatro, attraverso l’integrazione e l’interazione tra persone diversamente abili e non, inseriti in un comune terreno di ricerca e di fonte creativa, dove la terapia è implicita al processo, consentendo un re-inserimento nel sociale e una ri-acquisizione percettiva del corpo. Quest’ultima considerazione è ciò che caratterizza l’attività teatrale di compagnie quali Vi-kap, Lenz Rifrazioni, Gli amici di Luca, (alcune forme di teatro sociale diverse nel tipo di disagio che presentano) che considerano fondamentale all’interno del gruppo l’aspetto della relazione e della condivisione. Il laboratorio, presente in ognuna delle realtà teatrali sopra citate, è necessario al fine del progetto artistico, è dalla relazione tra le diversità che avviene l’esperienza in sé attraverso l’espressione del sé. L’immediatezza spazio-temporale del “qui e ora” del laboratorio consente attraverso tecniche d’espressione corporea, quali l’improvvisazione, di liberarsi dagli automatismi della quotidianità restituendo una fluidità alla meccanica del corpo, ma anche d’abbandonarsi a quella spontaneità che, priva di mascheramenti, svela il volto autentico dell’identità attraverso il lavoro su se stessi.
Cos’è il teatro se non l’utopia di conseguire attrraverso azioni efficaci un autentico mutamento?
In questi termini il teatro diventa evoluzione, poiché non limitandosi alla finzione consente di cedere al rischio di essere svelati, di mettersi a nudo facendo crollare ogni difesa e ogni distacco.
Cos’è la diversità se non una dichiarazione d’appartenenza all’esistenza?
La storia rende individuabili i reali fautori della follia, una storia di violenze e repressioni causate per paura del diverso: neri diventati schiavi, omosessuali incarcerati o uccisi, disabili psichici torturati nei manicomi, disabili fisici considerati come freaks. Ripercorrere queste tappe squalifica ogni accusa di tipo etico rivolta al teatro delle diversità, nonostante la sua forte presa di coscienza sia analoga a quella crudeltà intesa come determinazione che Artaud ci ha insegnato a perseguire.
E’ tempo che lo spettatore diffidi dal pregiudizio perché commuoversi significa muoversi insieme nella spietata ironia di un disagio comune.
Basta con la paura del teatro come diversità o della diversità, perché se il teatro è il doppio della vita, allora è anche l’unica libertà che possediamo ancora in pugno.

Stefania Baldizzone

Il teatro nella diversità

Sono molteplici e differenziate le esperienze teatrali che hanno prodotto nell’ambito del disagio sociale un lavoro artistico che vanta i nomi delle più autorevoli compagnie, italiane e non. Dal Teatro Nucleo a Lenz Rifrazioni ad Arte e salute. Un modo per ricordare quel che è stato fatto e quel che ancora potrebbe essere compiuto a trent’anni dall’emanazione della legge Basaglia.

Il binomio teatro/disagio psichico è al centro del lavoro di compagnie o gruppi che, in seguito a un graduale ampliamento dei confini dell’arte teatrale a partire dagli anni ‘60, si sono mossi all’interno dell’ambito artistico, con richiami necessari al contesto sociale.
Esperienza rilevante è quella promossa dal Centro per il Teatro nelle Terapie, fondato dalla compagnia italo-argentina Teatro Nucleo nel 1992. L'aspetto terapeutico è parte costitutiva del lavoro teatrale e si sviluppa contemporaneamente alla ricerca di una forma specifica di pedagogia. Il CETT è uno spazio per la ricerca, la pratica e l'insegnamento di esperienze teatrali che possono trovare applicazione nelle terapie per disabili psichici o fisici e nelle problematiche di disadattamento sociale. Le prime iniziative del Teatro Nucleo in Italia si collocano nell'ambito del movimento "Psichiatria Democratica" guidato da Franco Basaglia, che dall'inizio degli anni '70 conduce la lotta contro i metodi "terapeutici" della psichiatria tradizionale italiana. E’ in tale contesto che si inserisce il progetto teatrale ideato da Giuliano Scabia nel ‘73 (Marco Cavallo) presso l’Ospedale Psichiatrico di Trieste: un teatro inteso come strumento integrativo di relazioni sociali, creatore di rapporti di parità con l’interno (tra operatori, artisti e pazienti) e con l’esterno, antropocentrico, in quanto pone al centro della ricerca l’uomo-individuo, non la malattia. Nello stesso periodo il Living Theatre lavora a Genova, l’Odin Teatret nel manicomio di Volterra, il Gruppo Libero di Bologna a Imola.
Su questa linea si innestano, inoltre, le esperienze di Lenz Rifrazioni e Arte e salute ONLUS. Entrambe le compagnie operano, tra l’altro, nel campo del disagio, ma l’una propone un teatro che si fa mediatore, che ha come fine la terapia attraverso lo strumento artistico, l’altra un teatro che ha come obiettivo l’esito finale.
Lenz Rifrazioni lavora da otto anni con un gruppo di attori ex lungo degenti psichici del manicomio di Colorno, proponendo esperienze laboratoriali ed esiti performativi, in collaborazione con il Dipartimento di Salute Mentale dell’AUSL di Parma. Il lavoro drammaturgico prevede di partire da un testo, insieme agli attori, per giungere alla stesura di un copione personale; lo spettacolo rappresenta un breve frammento rispetto alla teatralità intesa come work in progress: la drammaturgia è pre-durante-post l’esito finale. Il lavoro artistico ha consentito ai pazienti una riapertura, un aumento delle prospettive di azione al di fuori dell’adempimento dei regolari comportamenti quotidiani.
Nanni Garella dal ‘99 dirige il progetto Arte e Salute con alcuni pazienti psichiatrici, cooperando con il Dipartimento di Salute Mentale dell’Azienda USL di Bologna, allo scopo di realizzare spettacoli teatrali professionali; per cui, non si è solo cercato di integrare teatro e terapia, ma il lavoro è stato condotto al fine di rendere drammaturgicamente valida la presenza scenica legata al terreno del disagio.
Tutte queste esperienze non sono state brevi e occasionali: si tratta di veri e propri percorsi formativi con una durata temporale che di solito copre l’anno di attività, per poi proseguire successivamente. La cooperazione fra attori psichiatrici e attori professionisti é resa possibile in primis dalla continuità e, in casi specifici, ha permesso la professionalizzazione di queste identità, in grado, con il tempo, di collaborare autonomamente al fianco di professionisti.

Maria Pina Sestili

Teatro, gioco, curiosità e rischio

Itinerario ludico di personaggi –attori alla ricerca di diverse identità in compagniadell’autore

Ogni testo teatrale è realizzabile su di un palcoscenico con attori, regia e quant’altro di tradizionale siamo abituati a vedere, ma può anche essere fonte d’ispirazione per un percorso al suo interno che può portare a esiti performativi differenti da quelli abituali.

Nell’anno accademico 77-78 Giuliano Scabia realizzò durante il corso di drammaturgia, un viaggio non comune di scoperta e reinvenzione del testo del drammaturgo tedesco Büchner Leonce e Lena. L’impostazione del lavoro consisteva nel giocare con il testo e guardarlo da vari punti di vista per concludere, non con una messa in scena, ma con una messa in gioco. Il tema ludico chiude la drammaturgia büchneriana: infatti Leonce si rivolge alla sua sposa parlando di giocattoli che escono dalle sue tasche; il divertimento, l’ozio e il dolce far nulla sono i temi principali dell’opera. Scabia, fin da subito, li evidenzia agli occhi dei ragazzi e per trasmettere loro la dimensione itinerante svolge le sue lezioni girando per Bologna sia in spazi aperti, quali colline, piazze, cortili e strade cittadine, sia al chiuso: come teatrino e aule universitarie. Il testo diventa così, durante questo viaggio, fonte d’ispirazione per altre attività artistiche: la fotografia, il disegno, la scrittura e la danza. I partecipanti vengono resi consapevoli di quanto sia necessario non fermarsi alla prima interpretazione di un testo, ma penetrare sulle molteplici intenzioni dell’autore, immedesimandosi ed anche scontrandosi, se necessario con i personaggi. Il testo così diventa un pretesto, una traccia, una città da esplorare e una miniera da scavare. Scabia non è stato un docente in cattedra, in questa esperienza, ma ha lavorato sullo stesso piano dei ragazzi, discutendo e rendendosi loro compagno.
“Dire Fare Baciare Lettera Testamento” è la formula scelta da Scabia stesso, che titola l’esperienza e riassume bene il filo conduttore della versione di Leonce: recitare è giocare.
Il Leonce buchneriano alla fine è stato superato facendo nascere nuovi testi: uno basato sulle foto degli incontri e uno vissuto nei balli e nella festa che hanno concluso il corso di drammaturgia.

Sami Karbik

mercoledì 23 aprile 2008

I dubbi del dubbio

Storia di una replica domenicale dove ai dubbi sollevati dallo spettacolo, si aggiungono quelli sull’atteggiamento di un pubblico stranamente “effervescente”che dà spettacolo di sé e delle proprie abitudini teatrali.
In una primaverile domenica pomeriggio, la sala grande dell’Arena del Sole è gremita e vociante; clima “effervescente” per Il dubbio, regia di Sergio Castellitto, con Stefano Accorsi e Lucilla Morlacchi. Silenzio e buio calano all’improvviso sul pubblico ancora scomposto; in molti si affrettano, inciampando tra le poltroncine nel buio pesto della sala. Nessuno vuole perdersi l’apertura del sipario, che mostra uno Stefano Accorsi nelle insolite vesti di sacerdote per lasciarlo, un attimo dopo letteralmente… in mutande. Si apre così Il dubbio di John Patrick Shanley, testo ambientato nel 1964 che affronta diversi e scottanti temi: i rapporti gerarchici all’interno della chiesa post Concilio Vaticano II; gli atteggiamenti di scherno e isolamento tra adolescenti – antesignani dei più attuali fenomeni di bullismo – le complesse quanto dolorose realtà domestiche; abusi e violenze – o supposti tali – all’interno della chiesa; i dubbi di coscienza che affliggono anche chi, come i religiosi protagonisti della storia, possono contare sull’incrollabile fede in Dio e sull’altrettanto incrollabile(ma sarà davvero così?) fede nelle proprie certezze. La storia: in una scuola americana degli anni sessanta, retta dalla rigida e arcigna suor Aloysa - vittima e carnefice allo stesso tempo - la presenza del giovane padre Flynn, socievole e carismatico sacerdote che inaugura un nuovo approccio con gli allievi basato sul dialogo e sul rapporto umano, porta in breve tempo a un completo sovvertimento delle regole della scuola, e altrettanto velocemente fa scivolare padre Flynn nella vergognosa accusa di abusi sessuali sull’unico allievo di colore dell’istituto. Catalizzatore della tragedia, la gioiosa quanto incerta suor James, che per insicurezza e timore reverenziale nei confronti della temibile priora trasforma un proprio dubbio – tempestivamente scacciato dalla sua mente dopo un pudico eppure inammissibile sfiorarsi della mano con padre Flynn – nella certezza assoluta dell’altra, che dà il via all’azione fino all’esito finale della “promozione” di padre Flynn a rettore di un altro istituto e successivo trasferimento. In questo caso, si può veramente sostenere che il titolo dell’opera è quanto mai comprensivo di tutti i suoi significati, perché tanti sono i dubbi che questo spettacolo instilla. Primo: il sacrosanto quanto prevedibile dubbio che tormenta la vecchia priora dopo che – per sua stessa ammissione - riesce ad allontanare padre Flynn dall’istituto attraverso mezzi leciti e illeciti. In secondo luogo, il dubbio sul pubblico dello spettacolo; la sala è gremita, gli applausi sono scroscianti e talvolta(il più delle volte) inopportuni e fuori luogo, le risate a bocca larga, ampiamente percepibili anche dalla galleria, sono addirittura sguaiate e tristi, perché esplose in momenti altamente drammatici dove, forse, all’immagine di un disperato Accorsi che, nella solitudine di uno spoglio giardino viene ferocemente tormentato dal gracchiare insistente di un corvo, nella mente del pubblico si sovrappone il suo scanzonato volto ai tempi della reclame che lo rese famoso( “two is meglio che one” ammiccava il sorridente Accorsi a due avvenenti fanciulle in bikini)… cosa scatena questo atteggiamento nei miei vicini di poltrona? forse un sentimento di bonario campanilismo verso un giovane bolognese che dalla pubblicità è approdato al cinema e poi addirittura a teatro? forse il fascino della sua vita parigina? forse è un modo di reagire alla sonnolenza che le abbuffate domenicali portano inevitabilmente con sé? Se si tratta di questo, consigliamo caldamente di alleggerire la portata dei pasti, soprattutto con l’avvicinarsi della calda stagione. Ancora sul pubblico. Osservo una situazione anagrafica stranamente eterogenea: è evidente un netto distacco tra il “pubblico degli abbonati”, la cui età media si aggira sui sessantacinque anni circa, e quella di diverse “teen ager” visibilmente spaesate e poco avvezze alla frequentazione del teatro, agghindate a loro modo, da grande soirée, forse nella vana speranza di poter accedere ai camerini di Stefano per sommergerlo di abbracci e farsi firmare l’autografo. Il dubbio: saranno rimaste deluse dalla presenza fisica di Accorsi, che tutto sommato è poco alto, mediamente robusto e tanto, tanto stempiato? terzo dubbio: ma il moderno galateo non contempla che sia da maleducati scattare foto con i cellulari nel bel mezzo dello spettacolo? allora perché questi signori avvezzi al teatro, che tutto sembrano tranne che pionieri della tecnologia, si lanciano in “paparazzate” furiose con il cellulare ultimo modello? perchè la distinta signora seduta alle mie spalle urla dal fondo della galleria “Bravi!!!!!!!!”, facendo involontariamente il verso a quel corvo che prima aveva fatto tanto ridere? Dubbi che, tuttavia, non mi hanno distolta dallo spettacolo; abbastanza convincente Accorsi, malgrado il rigore del teatro e del suo ruolo gli tolgano la freschezza che mostra al cinema; aspra e penetrante la voce di Lucilla Morlacchi, il tono austero, la forza, quasi la ferocia, con la quale stringe al petto il suo crocifisso nei momenti di maggiore difficoltà, ma soprattutto in quelli di più umana ira; essenziali le scelte registiche di Castellitto, dalle ambientazioni cupe e rigorose, con cambi di scena a vista eseguiti da un nugolo di suorine silenziose e la presenza di pochi oggetti a significare il cambio di luogo e talvolta addirittura la presenza di altri personaggi sulla scena(come nel caso del dialogo tra padre Flynn e i suoi ragazzi – sedia); bella la colonna sonora, che ci regala straordinari pezzi di Bob Dylan. Malgrado le due ore e un quarto di spettacolo, forse troppo repentino e sotterraneo il terremoto che scuote il tran tran del grigio istituto; l’ultimo dubbio: che ciò non sia dovuto a scelte registiche o interpretazioni del testo più o meno felici, ma che talvolta, basti veramente un gesto creduto innocuo per scatenare la tragedia e instillare nella mente il dubbio.

Giusy Ripoli

martedì 22 aprile 2008

All'ascolto...in quell'antico respiro

Officina Valdoca, Misterioso concerto: Canto e lamento, grido e richiamo che ci ricongiunge ad un senso originario della vita

Un urlo uterino, rauco, tirato che si acutizza nella voglia spasmodica di riappacificarsi a una terra avvertita come ostile, l’essere poeta di Mariangela Gualtieri interroga l’io scavando nel substrato, alla ricerca di un’energia che possa rimettere in circolo un humus palpitante. E’ forma di una materia che non è identità, di corpi che non sono patria, di neonati che cullano da soli il proprio pianto, di solitudini analizzate su un lettino, la storia epiteliale dell’uomo. La mano inquisitoria questa volta è la parola, parola assorta e invadente, parola autonoma filtrata da una voce, aggirata dai corpi, una parola che non è evocazione né rappresentazione, parola che non ha perno emotivo, parola che sbrana la vita riducendola a brandelli e scorge bellezza in quelle ferite, parola che se pur esibita in versi esce dai confini della pagina in cui è canonicamente chiusa e comincia a farsi udire, catalizzando una commozione rigeneratrice. “Misterioso Concerto”, titolo tratto da una poesia di Clemente Rebora, diretto da Cesare Ronconi, è un’esperienza, un tentativo di soccorso e di ascesa alla vita, nel senso pieno del termine. I testi scelti per questo concerto sono tratti da “Senza polvere e senza peso”, da “Paesaggio con fratello rotto” e da “Sermone ai cuccioli della mia specie”.
In scena un quadro molto pulito, tre postazioni minimali: un pianoforte per le mani di Dario Giovannini che accenna anche qualche nota di chitarra accarezzata come un violino, una pedana in posizione centrale per il corpo semi nudo, usato senza eccessi, di Muna Mussi, attrice presente in tutti gli ultimi lavori della Valdoca e una pedana laterale per Mariangela Gualtieri, su cui si muoverà con compostezza e con lunghi arti finti, in fondo un telo che diventerà schermo di proiezioni di alberi, contorni umani e fiamme. In questo spettacolo, come in tutti gli ultimi spettacoli di Cesare Ronconi, la voce degli interpreti passa attraverso l’amplificazione dei microfoni che rende il suono paradossalmente più intimo, perché in grado di svelare ogni piccolo respiro, ma anche più carnale, penetrante, in grado di percorrere grandi distanze e aprire nuovi varchi; il microfono si fa portatore di una sacralità architettonica che rimanda agli antichi luoghi di culto in cui musica e preghiera dovevano essere supportate da grande maestosità per attraversare l’ultra-spazio e arrivare all’orecchio di divinità sempre più sorde.

Alessandra Coretti

venerdì 18 aprile 2008

Onore e disonore nella terra di mattoni

Costanza Macras, Brickland

In Brickland, il nuovo spettacolo di Constanza Macras presentato al Teatro Comunale di Ferrara, si viaggia nelle periferie recintate dei nuovi ricchi, in una felicità all’aroma di Prozac, perennemente in attesa dell’esplosione di qualcosa

Nuovi territori, luoghi senza identità, spazi dell’apparenza e della vacuità esistenziale: scenari disneyzzati della globalizzazione sorgono alle periferie cittadine come ridenti quartieri residenziali, recintati dal filo spinato dello status di appartenenza, ghetti per una middle class sempre più alla ricerca di una sicurezza che l’apertura dei confini internazionali ha corroso. Paradisi protetti dalla miseria e dal degrado, protetti dalla vita, quella reale. Costanza Macras porta sul palco del Comunale di Ferrara un’oasi artificiale: un’insegna luminosa ci indica il nome: “Brickland”, terra dei mattoni. Brickland non a caso è un quartiere alle porte di Buenos Aires, terra d’origine della coreografa, ma potrebbe essere ovunque. Ville lussuose, allarmi high-tech, la serenità di un bagno in piscina nelle giornate di sole. Non è gradito il disturbo, non è gradita l’immondizia, niente problemi: solo felicità e dosi di Prozac!
Frenetico disordine, promiscuità e manifesta sessualità, satira sociale, parodia del consumismo moderno, tragici individualismi, smarrimento per la perdita dei rapporti umani e scenari kitsch investono letteralmente lo spettatore, trascinandolo in un vortice centripeto ritmicamente convulso. Significazione esasperata che sfocia in isterismo comunicativo. Un boccascena che bombarda con musiche dal vivo e suoni, video installazioni e danze, scenografie elaborate e costumi appariscenti: una teatralità eccentrica estrosa e violenta, in cui movenze contact si coniugano con un plurilinguismo che caratterizza gli stereotipati personaggi.
Brickland è un esasperato microcosmo di cliché attinti dalla cultura trash pop e glamour, dissacrati in giochi di humour e grotteschi immaginari, nei quali non è poi così arduo riconoscersi.
Il sipario è aperto, la scena un cibernetico quadro surrealista. Nelle due ore concitate, durante le quali sono quasi assenti tempi morti grazie all’alternarsi di situazioni corali e scene introspettive, succede di tutto. I danzatori, pedine di un preciso disegno registico, corrono e si lanciano su scivoli e rampe metalliche, si arrampicano e cadono, lottano tra loro, interagiscono con la scenografia e con i musicisti, anch’essi parte del gioco scenico. Non danzano molto, ma lo fanno come si deve. Cantano, recitano, fanno sorridere il pubblico parodiando l’attualità, le fiction televisive, i musical. I personaggi sono individualità esasperate del terzo millennio: l’immobiliarista in tailleur nevrotica e depressa, l’etnologo tedesco perso nelle sue elucubrazioni “post post post”, la bionda e fatale casalinga annoiata, l’uomo della security tutto muscoli e niente cervello, l’orientale isterica che in un rap aggressivo rivendica il diritto di non essere chiamata “Cin Cin”. La repressione e la noia si trasformano in violenza e perversione: i personaggi lottano e fingono rapporti sessuali tra loro e con gli oggetti. Finché la scolaretta, una ragazza viziata e abbandonatasi forse all’alcol o alle droghe, si lascia possedere da un uomo. Atto di pedofilia che sarà punito dal “servetto” nero, l’uomo statuario. Marinella Guatterini parla di una caduta di stile della Macras, la quale, secondo il parere della critica, ridicolizza gli stereotipi ma ne è a sua volta innocente vittima: l’uomo bianco è il cattivo capitalista, l’uomo nero è il povero buono e giusto. Ma la scelta della coreografa argentina è consapevole e mirata: vuole denunciare la ghettizzazione delle comunità borghesi residenziali, che del senso novecentesco di comunità non conservano più nulla.
“Sono un pesce d’allevamento che nuota nella sua stessa merda”, piagnucola la bambolona bionda, prototipo della desperate housewife: la vediamo correre, nel video proiettato, fra le ville di “Brickland”, con un lungo abito da sera fucsia e il trucco sbavato: immagine emblematica della sua depressione da telenovela.
Macras mette in scena l’ipocrisia di un micro-mondo perfetto, dove uscire dalla vita vera significa creare solitudine. La comunità è congelata in una fotografia ansiogena per la sua perfezione, sotto le note imponenti dei Carmina Burana. S’illumina l’insegna: tutto questo è ”Brickland”!

Irene Di Chiaro e Paola Stella Minni

La regina del trash

COSTANZA MACRAS, L’inarrestabile ascesa di una coreografa che gioca con la quotidianità


La giovane e innovativa coreografa nasce nel 1970 in Argentina, a Buenos Aires, terra nella quale compie studi di danza e fashion design. A New York Costanza Macras si perfeziona con Merce Cunningham, uno dei principali esponenti dell’astrattismo americano, precursore della postmodern dance, dalla cui tecnica si scosterà durante il suo percorso d’autrice. La sua fantasiosa creatività viene alimentata ad Amsterdam, dove studia con Glen Eddy, Ivan Kranmar, Amanda Miller e altri, presentando già qualche suo lavoro e creando performance per club. Nel 1995, l’incontro con la stimolante e dinamica realtà berlinese, dove inizialmente danza per varie compagnie: basteranno un paio d’anni per l’avvio della prima compagnia di teatro danza “Tamagotchi Y2K”.
Tra il 1998 e il 2000 il gruppo presenta, in diversi teatri berlinesi ed europei, quattro performance “Wild Switzerland” (1998) “Face One” (1999), “In Between” (2000) e “Dolce Vita 2000”. Nel 2003 Macras fonda “Dorky Park”, la sua consacrazione a protagonista della scena di teatrodanza europeo, con il quale realizza due progetti nella capitale tedesca: “Back to the present”, allestito per la prima volta in un edificio fatiscente, ex centro commerciale, e “Happiness”, presentato al Saarbrucken.
Degna di memoria la produzione del 2004 “Scratch Neukoelln”, dove la coreografa affianca al suo gruppo inusuali performer: ragazzini di famiglie immigrate rubati alla scena hip hop del quartiere multietnico di Berlino.
Attualmente Costanza Macras lavora con la compagnia da lei creata “Dorky Park”, allestendo spettacoli nei principali teatri della città in cui vive la sua artisticità. Il filo rosso delle sue produzioni è la peculiarità di un collage sovraccaricato: le pièce, sebbene strutturate con profondo rigore, sono caotici amalgami di movimento, parola, video e musica.

Il teatro messo in scena dalla Macras è rabbioso, ma al contempo buffo, grottesco. Il collage compulsivo delle sue creazioni riflette e allo stesso tempo denuncia le perversioni consumistiche della nostra epoca, ma il corpo non è “violentato” da un’esigenza registica. È piuttosto il mezzo che comunica attraverso le sue incorporazioni della società; è un involucro bauschiano usato per le sue capacità espressive e passionali. La scena si riempie di uno studiato disordine, di oggetti comuni coi quali interagiscono i “danzattori”. Macras gioca letteralmente con la quotidianità. Nell’alternarsi di passaggi corali concitati e di azioni introspettive concentrate su pochi performer, le cui peculiarità caratteriali sono approfondite, esasperate o sconvolte, rileggiamo l’influenza forte del Tanztheater tedesco, unito a una aggressività tipicamente sudamericana e a un sarcasmo “almodovariano”. Un’estetica fatta dunque di esasperazione delle pratiche abitudinarie, riscontrabile nell’elaborazione del vocabolario gestuale e orale, in un certo gusto per l’abbigliamento, talvolta ridicolizzato. Uno sguardo palesemente femminile ma non troppo femminista, cosmopolita come sono i suoi danzatori iper-energici ma spaventato dal mondo globalizzato e disneyzzato, quello della miseria cittadina da un lato, e dall’altro del lusso sfrenato e protetto dei nuovi sobborghi borghesi.


Irene Di Chiaro e Paola Stella Minni

Anche tu nella denuncia

Sonate Bach, "Di fronte al dolore degli altri”: ogni giorno è una data della memoria


Virgilio Sieni dà voce al corpo: che parli delle macerie, delle bombe, della desolazione. La paura. Attraverso undici Sonate Bach, undici giorni di morte: la strage dello Jenin, di Sarajevo, Kabul, Tel Aviv, Srebrenica, lo sterminio di massa più sanguinoso dopo la seconda Guerra mondiale, Istanbul, Gaza, Beslan, Baghdad, Bentalha e Kigali. Senza criteri cronologici le date si succedono sullo sfondo, come se la morte non avesse dimensione temporale che la giustifichi. E’ solo morte. Fantasmi dagli abiti poveri, stinti dalla tristezza, nella nebbia ricompaiono, tornano sulla terra per sussurrare senza pretesa come dall’uomo siano stati traditi, scalzati lontano, scacciati come i cani scarni e fastidiosi del video di Adriano Sofri. Fluidi movimenti di quattro ballerini che si enucleano, si lasciano, si rimescolano per dar vita a nuovi grumi di dolore. E allora il palco diventa affollatissimo, omaggio, recupero di tutte le stragi avvenute. Braccia protese in cerca d’aiuto, gambe mutilate, girotondi di sconforto, fucilazioni, si sperimentano in un’area esclusiva, delimitata a rettangolo come lo schermo della tv, da cui sappiamo ormai assistere al sangue divertiti, allietati da note “andanti allegre” di un pianoforte e di una viola da gamba che si accordano sul “la”. Anche per dire il dolore serve armonia. Dignità. Per non spaventarci troppo? E’ una superficie piatta, senza alcuno spessore di vita quella su cui danzano i morti, e quella verso cui guardiamo, compiaciuti di esserne al di qua. Pesante denuncia di anti-moralità, per chi ha permesso tutto il male e per chi, Di fronte al dolore degli altri, si è ancor più cullato nelle proprie candide certezze. E tu, spettatore, cosa applaudi?


Cecilia Martinelli

giovedì 17 aprile 2008

I pericoli e la forza di una mancanza

CREST, Il deficiente
Gaetano Coltella e Gianfranco Berardi raccontano la cecità tra luci e ombre

Il deficiente è chi ha un deficit e per tutta la vita si ritrova a sopportare il peso della differenza e dell’emarginazione. Ma cosa succede quando colui che ha una mancanza diventa colui che, strumentalizzando tale mancanza, si impone violentemente sugli altri in base al postulato “Chi ha bisogno comanda”? Lo spettacolo di Gaetano Colella e Gianfranco Berardi, vincitore del Premio Scenario nel 2005, si basa sulla demolizione del pregiudizio e del senso comune che vengono rovesciati e relativizzati a partire dalla riflessione sulla cecità e da un’indagine sui vari livelli di sensibilità e violenza a essa collegati.
Nella casa di un cieco e dei suoi due fratelli, le cui abitudini sono impostate sulle necessità del primo, arriva un quarto personaggio che, con la sua presenza, altera gli equilibri portando la situazione, già di per sé molto fragile, al totale collasso. In questo contesto la cecità viene rappresentata come uno strumento di potere spesso violento ma anche come la possibilità di un diverso modo di rapportarsi al mondo.
In una stanza-abitazione delimitata da tre parapetti neri che definiscono il perimetro dello spazio scenico agito, si sviluppano i vari conflitti dello spettacolo. Il testo è ricco di ironia e di giochi linguistici basati sulle molteplici sfumature del campo semantico della vista. Molto interessante è anche il doppio magnetico del testo parlato: alcune cassette registrate di cui si sentono degli spezzoni, testimonianza di una realtà precedente a quella rappresentata, più serena e in cui la convivenza dei tre fratelli doveva essere ancora pacifica.
Non ci sono personaggi principali o secondari poiché tutti gli attori in scena sono buoni e cattivi, onesti e vendicativi, deficienti e sani. Il culmine viene toccato quando i due fratelli decidono, per vendicarsi di Omar (il cieco), di indossare delle mascherine scure che li rendono non vedenti così da poter fronteggiare, ad armi pari, lo strapotere acquisito dal fratello grazie al suo handicap. Alla sovrapposizione di diverse cecità si vanno ad affiancare, allora, diverse sensibilità e violenze, dimostrando quanto possa essere potente la rabbia e quanto possa rendere crudeli l’impotenza. Quella tra vista, sensibilità, deficienza e crudeltà è un’equazione interessante egregiamente sviluppata dagli autori del testo.
In alcuni momenti lo spettacolo risulta trascinato: i tempi di reazione degli attori sono piuttosto lenti, soprattutto se accostati ad altri momenti di effervescenza incontrollata. Probabilmente, però, anche questi rallentamenti corrispondono all’intento primo dello spettacolo: rendere lo spettatore partecipe di uno stato in cui è difficile orientarsi e adattarsi, in cui tutto si dilata e in cui, ai normali tempi di reazione di una persona non-deficiente, si devono sommare quelli di comprensione e di ambientamento di una persona priva del beneficio della vista.
Ne Il deficiente il limite viene trasformato in un potenzialità piena di contraddizioni, invitando a riflettere sulle proprie deficienze sensoriali ed emotive, sull’aggressività latente che ha sede nella mancanza e su quanto la mancanza stessa, così come il dolore, sia uno dei pochi elementi che ancora rifuggono alle classificazioni e alle disuguaglianze.

Nicoletta Lupia

mercoledì 16 aprile 2008

La memoria del luogo universale

STOA, Pro Loco Isto


Secondo appuntamento con i balli proposti dalla Stoa nella stagione della Soffitta. Pro Loco Isto rappresenta l’ultima creazione della scuola cesenatica, una produzione che vede la partecipazione di un numero sempre maggiore di ragazzi a questo ballo che forse è un congedo. Si chiude, infatti, un ciclo di lavoro portato a termine dopo quattro anni, con tanto di festa danzante finale, grazie alla dj set di Demetrio Castellucci. A noi spettatori trascinati in scena, non resta che sperare che tutto questo non sia un addio.

All’inizio è ancora uno spazio vuoto ad attendere le truppe di ragazzi, questa volta una trentina, che avanzano nella luce della sala, mentre scandiscono il ritmo d’entrata cantando note che si concretizzano in una misura; misurazione dei passi, ripetuti, insistiti nel punto, unità minima definita dall’ampiezza dei singoli piedi. La voce libera l’energia che il corpo spinge contrariamente verso il basso: il movimento vocale partecipa, quindi, con la sua trasversalità commentando il piano orizzontale da cui la massa non può sollevarsi. La ripetizione dei gesti, dei costumi (ognuno, infatti, indossa una camicia bianca, kilt e scarpe di cuoio) dà forma a immagini che continuamente si creano e si disfano, attraverso una libertà oggettiva che, non intaccando in alcun modo la massa totale dei corpi, ne esalta e distingue le diverse specificità, di individui come di danzatori. La coralità si conferma come carattere fondante di un ballo in cui i singoli movimenti sono legati insieme dal ritmo, collante primordiale, e da precise regole interne. Ma al contempo emergono, dall’omologazione superficiale necessaria, le differenze: sono sfumature di colore, sono le personali interpretazioni, sono gli sguardi carichi di peculiari emozioni. Si stagliano dal coro delle guide che si alternano nell’indicare cambiamenti di direzione e nel ricordare i passi, attraverso la voce o anche solo col movimento.
Il ballo diventa l’espressione di una ricerca personale del proprio spazio vitale, di quel legame col terreno-territorio che attira a sé, forte come una calamita, determinando la presenza scenica dei corpi, per cui il baricentro si sposta inevitabilmente in avanti, le ginocchia si flettono e la testa si fa pesante. Nei movimenti collettivi che il gruppo compie, si generano scintille di vita autonoma che distaccandosi affermano la propria condizione di diversità: non esiste l’errore, ma lo sbaglio è un movimento che arriva inaspettato e che può condurre ad altro, innescando meccanismi diversi e individuali, per poi recuperare la traiettoria collettiva. Un doppio movimento che cerca di dar forma a una coreografia universale, in cui ritorna l'importanza delle origini, dello spazio, perchè è il ballo stesso, in fondo, a dar vita ai luoghi.




Giulia Tonucci

La timidezza del frammento

PATHOSFORMEL: La timidezza delle ossa

Al centro della scena un telo bianco, teso, in mezzo al vuoto. Può bastare a fare uno spettacolo, può contenere uno spettacolo? Sì, perché questa sorta di schermo in pvc, che irradia luce, che attrae come una calamita i nostri sguardi, contiene ciò che noi cerchiamo; lo riproduce, lo mostra sfuggevolmente, timidamente prima, con lampi di irruenza poi. Dalla sua superficie liscia emergono escrescenze di vita, accennate protuberanze informi che appaiono e scompaiono. Un’insistenza, un richiamo, un volersi mostrare per frammenti: parti di noi che non siamo più, bassorilievo schiacciato di figure che non si espongono nella loro interezza, perché l’integrità cercata è stata logorata dalla sovraesposizione mediatica. Così l’indagine sul corpo si compie per sottrazione, quasi totale, di ciò che va solo immaginato. Perché dietro quelle visioni astratte, che richiamano alla mente delle immagini video piuttosto che di teatro, c’è lì, in quel momento, una vera massa fatta di carne, muscoli e ossa, che si muove, che cerca di far emergere la propria necessità ontologica. Una materialità che si trasmette anche a livello uditivo, attraverso lo struscio impercettibile contro la parete vinilica, che cela ma non nega, separa ma al contempo predispone all’incontro, al desiderio da parte nostra, della rivelazione. Tutto accade dietro, in quello spazio dove non ci è data la possibilità di accesso, dove i corpi possono fluttuare e sgretolarsi, ricomporsi per poi di nuovo perdersi nel candore lattiginoso della tela. I momenti salienti di queste epifanie sono accompagnati da rumori, suoni, voci campionate, che arrivano da un immaginario oscuro e tecnologico e che fanno vibrare lo stomaco e le sensazioni percettive, insieme.

La giovane compagnia bolognese Pathosformel con questo lavoro, grazie al quale vanta una segnalazione speciale al Premio Scenario 2008, opera sulla negazione del corpo dell’attore, della sua non visibilità sulla scena; e grazie all’utilizzo di attrezzature ingegnose per quanto semplici, si avvicina a quelli che sono i confini della videoarte, richiamando alla mente le ricerche di Chris Cunningham sul corpo smembrato, post-organico, inseguendo l’imprevedibilità generata da un’epoca in cui tutto è esposto agli occhi, ogni cosa è visibile, passata ai raggi x che ne rivelano lo scheletro.
Giulia Tonucci

Sul cubo del Duse

Disco Pigs, fra maschere alla commedia dell’arte, suoni elettronici e fantasie violente da Torino arriva una disco opera

E' atterrato al Duse il Teatro di Dioniso con Disco Pigs. Lo spettacolo, ‘disco opera’ come lo chiama l’autore Valter Malosti, è liberamente ispirato al testo omonimo dello scrittore Enda Walsh. La sua scrittura “pirotecnica”, sfrontata e travolgente, in questo testo maturata al massimo, ha portato al giovane drammaturgo irlandese un enorme successo sui palcoscenici internazionali. Il regista mette in scena Walsh per la seconda volta, dopo Bedbound, eliminando dal testo originale i riferimenti spazio-culturali e adattando soluzioni linguistiche ai termini italiani. Nel lavoro questa volta è accompagnato da Michela Lucenti che ha curato la coreografia dello spettacolo. I due interpretano altresì i protagonisti, adolescenti diciassettenni, emarginati, vittime disperate del mondo delle periferie sentimentali. Due amanti non destinati uno all’altro, con uno spiccato gusto per la trasgressione e per l'eccesso nel parlare e nel fare, perseguitati dal bisogno di smentire la propria solitudine. Su una pedana rialzata al centro del palcoscenico, che evoca la pista da ballo o un tappeto magico ovvero il posto dove tutto è possibile, gli attori raccontano questa storia romantica con un linguaggio rutilante intrecciato con movimenti frammentati ed enfatizzati, che sono anche le caratteristiche della fantasia dei nostri protagonisti. Il paesaggio sonoro, elemento fondamentale dell'opera, è costituito da brani di musica elettronica. Bjork e i Prodigy, Philip Glass e Tiefschwarz e Jeff Mills, con ritmi psicadelici, sintonizzati sui turbamenti dei protagonisti, scandiscono il tempo della sofisticata espressione verbale e fisica, immergendo il bellissimo racconto visionario e onirico in una dimensione epica.

Tomas Kutinjač

sabato 12 aprile 2008

Drammaturgia dei rilievi

Pathosformel a La Soffitta con Timidezza delle ossa, spettacolo vincitore della segnalazione speciale Premio Scenario 2007




Sarebbe interessante sentire cosa ne direbbe Mallarmè.
La visione che ci propone questo spettacolo è senza filtri, priva di una chiave di lettura precisa. Tutto è lasciato al cadere in profondità senza punti d'appoggio. Profondità che spaventa, acceca, urla. Eppure è tutto qui, davanti a noi su una superficie gommosa che fonde il passato col presente, il dentro col fuori, il percepito con l'illusione, il pulito con lo sporco: nero su bianco. Sembra un'immagine microscopica di particelle che decidono di riunirsi e farci intravedere un organismo sempre più complesso, timido nel suo affiorare, spaventato nel suo ritirarsi. Sono immagini di ossa umane che vengono a concretizzarsi. E' il risultato di un sofisticato lavoro tra due corpi e il pannello, composto di PVC. I rilievi assumono sembianze di braccia, di schiene, di mammelle, di fianchi maschili e femminili che a tratti sembrano quadri di Klimt, ridotti all'osso. Sfumature erotiche che cadono e risalgono senza gravità, si sostengono, si accarezzano, lottano. Due corpi risucchiati da un vortice dantesco che gira eternamente in un ritmo fluido e plastico, producendo sonorità ‘primordiali’ che proiettano l’immaginario in una dimensione epica. La compagnia veneta Pathosformel, il cui nome si rifà ai valori dell'archetipo e dell'ancestralità, coniati da Aby Warburg, di alcune immagini che riemergono attraverso i secoli nella storia dell’arte, propone una visione senza tempo e spazio precisi. Potremmo collocarla al momento della creazione del mondo, destinata all'eternità, in un luogo qualsiasi che non abbia gravità. Forse un sogno. Sicuramente una poesia, scritta col corpo.

Tomas Kutinjač

giovedì 10 aprile 2008

Lacrime amare di Petra von Kant

Lacrime amare di petra von Kant ovvero 'l'amore è più freddo della morte'
“Ogni volta che due persone si incontrano e stabilisicono una relazione si tratta di vedere chi domina l’altro. La gente non ha imparato ad amare. Il prerequisito per potere amare senza dominare l’altro è che il tuo corpo impari, dal momento in cui abbandona il ventre della madre, che può morire.” (R.W.Fassbinder)

Antonio Latella ritorna ad affrontare il grande regista cinematografico e teatrale tedesco Reiner Werner Fassbinder, in Le lacrime amare di Petra von Kant, testo scritto nel 1971, portato in scena lo stesso anno e girato su pellicola l’anno successivo, uno dei capolavori dell’autore tedesco. Lo spettacolo è prodotto nel 2006 e questa è la sua seconda tournée nei teatri italiani.
Lo spazio che abbiamo davanti è un luogo fisico e mentale. E’ la casa di Petra von Kant: un ambiente bianco, sterile, attraversato da ombre, da ricordi, da conflitti, da ossessioni. Il scena è scarna: un telo che funge da quinta e schermo sul quale verrà proiettato un magistrale gioco di ombre come contrappunto alla superficialità della scena e, in centro, un’enorme statua femminile di 5 metri, nuda. Un totem, un’icona, un ideale, una proiezione, un epicentro. E’ sul tema della possessività e amore (omosessuale) che ci viene proposto il filo conduttore di questo dramma al femminile. Petra è una stilista di successo, ricca, reduce da due matrimoni mal riusciti. Intorno a lei satellitano donne, tra serve, amiche, madri, figlie che dipendono dalle sue tasche. Ce infine Karin, bellissima giovane dalla quale Petra rimarrà affascinata fino a “innamorarsi”, le prometterà una carriera nel mondo della moda occupandosi di tutte le sue esigenze economiche. Tutti i personaggi intorno a Petra vanno e vengono tranne l’onnipresente e devota Marlene, sua serva, che la ama incondizionatamente. Ponendo la Donna come totem assoluto, Fassbinder accusa la società odierna per la perdita delle emozioni primitive. La dipendenza è ciò che lega tutti i personaggi del dramma. Maschere che Fassbinder e in seguito Latella cercano di sciogliere, penetrare, vivisezionare con la speranza di trovare la poesia delle emozioni sopravvissute. Il risultato che ottengono è una tragedia, un melodramma moderno. Esaurita dopo esser stata lasciata da Karin, nel colmo della sua crisi isterica, Petra confessa: “Bisogna imparare ad amare, senza pretendere nulla... io volevo solo possedere”. E accusa: “Siete tutte così false, misere, siete delle stronze, repellenti, siete solo dei parassiti”. Una possibile via di uscita è distruggere tutto, fare a pezzi la bambolona con le sembianze di Karin, alzare il telo che divideva la “faccia” e “l’anima” del palcoscenico. Accanto a Petra rimane solo Marlene le cui lacrime, sintesi artistica dell’amarezza del vivere, segnano il finale della visione.


Tomas Kutinjač


venerdì 4 aprile 2008

Dove finisce la fiaba

DARE AL BUIO, di Letizia Russo, regia di Renzo Martinelli, produzione Teatro i.


Letizia Russo, voce forte della nuova drammaturgia italiana, riscrive l’episodio emerso su tutti i giornali, di Natasha Kampusch, la giovane rapita e segregata per otto anni. Il titolo dare al buio significa dare alla luce in un mondo alla rovescia, che è quello della fiaba. Con la regia di Renzo Martinelli, lo spettacolo reinventa la storia, indagandone il rapporto vittima-carnefice e il loro ribaltamento,in una dinamica che intrappola e seduce lo spettatore. Senza via d’uscita.


Mutuare dalla cronaca un fatto e trasformarlo in poesia; recitarla come una fiaba, narrata attraverso personaggi che non hanno bisogno di nomi ma a cui basta un’iniziale per riconoscersi. Nel buio. Nello spazio senza uscite e senza luce, dove la fantasia non ha potere infinito, ma si sgretola quando la bambina, ormai adulta, non ha più voglia di giocare. E così l’uomo-artefice soccombe, l’orco della storia cade di fronte all’inevitabile, più volte immaginato, sempre negato, momento di ritorno alla luce. Nel mondo alla rovescia, un metaforico Polo Sud dove i bicchieri cadono dal pavimento al tavolo e la pioggia dalla terra al cielo, la giovane reclusa trascorre un tempo sospeso, ma che si determina continuamente attraverso elementi inoppugnabili; inevitabili come il primo sangue mestruale, come il volto cambiato di fronte allo specchio, come lo scorrere delle lancette di un orologio. Il tempo acquista un andamento circolare, scandito da attimi che determinano la fine e, allo stesso tempo, l’inizio di un sogno che scivola nel buio della realtà, quella di fuori, per poi tornare dentro, a ripercorrere ciò che è stato: quella storia per cui il secondo che prelude alla morte pesa quanto otto anni di vita, rubata. La drammaturgia di Letizia Russo solleva il mero episodio dal banale giudizio, per donargli il significato del rito, di iniziazione ed espiazione, moltiplicando i punti di vista e in essi, rilevare i momenti in cui avviene la krìsis, la scelta tragica. Il valore classico è brandito nelle lame affilate dei coltelli impugnati dalla vittima e dal suo carnefice, in uno scambio di ruoli che travalica la dimensione psicologica e reclama, piuttosto, il sacrificio redentore. Una storia che ammicca per certi versi anche a suggestioni proprie dell’universo di Lewis Carroll, dal quale sembra emergere direttamente la figura X, un fool straniante e onnisciente, improbabile consigliere e guida verso una dimenticata libertà. La scena, affidata alla regia di Renzo Martinelli, pone l’azione su un praticello verde, a metà tra esterno e interno, ornato da oggetti kitsch e diviso da due lunghe lastre di vetro semoventi, dalle quali scorre una pioggia incessante; ideali filtri visivi e narrativi della vicenda, esse creano inoltre una barriera tra lo spazio della “casa stregata” e il fuori, in una dinamica continua di rivelazione e occultamento, di passaggi e ritorni. Un dispositivo scenico, insieme alla componente sonora, costantemente in primo piano, ma in perfetto equilibrio con la presenza dei i tre attori: Federica Fracassi, Gabriele Benedetti e Paolo Cosenza. Essi danno voce ai temi portanti della pièce, spesso impegnative dialettiche filosofiche come quella tra libertà e schiavitù, paternità e maternità, realtà e apparenza, attraverso una recitazione sfuggente e mai sopra le righe; figure il cui movimento è, inoltre, accuratamente studiato in relazione a un uso sapiente delle luci. Attraverso questi elementi, lo spettacolo indaga quel confine tra realtà e immaginazione che spesso è la vita stessa a varcare, silenziosamente; e quando ciò avviene le categorie saltano, buoni e cattivi non esistono più, e la finzione del lieto fine stride con il fine oggettivo. Ma è pur sempre la fine di una fiaba.

Giulia Tonucci


mercoledì 2 aprile 2008

Benvenuti nel meraviglioso mondo di Brickland

Brickland

CONSTANZA MACRAS
DORKYPARK _ Germania

Un isolamento globale e multietnico: la ricerca del paradiso dietro un muro di mattoni

Brickland, nome di un quartiere residenziale situato nei sobborghi di Buenos Aires, letteralmente “terra di mattoni”, è un luogo dove belle casette tutte uguali, prati curati, fiori ai balconi compongono un piccolo paradiso, ambiente sicuro per famiglie benestanti che si chiudono in un ghetto di cristallo per fuggire a un male che invece cresce dall’interno, nella freddezza dei barbecue in giardino, nell’arroganza delle feste chic, nell’erotismo di una partita di tennis. Un fotogramma di “Desperate Housewives” proiettato indietro al tempo delle rivolte femministe sessantottine in cui si bruciavano i reggiseni.
In scena s’intrecciano vari linguaggi, danza, canto, musica dal vivo e registrata, assordante, dirompente, esplosiva, a tratti disturbante. Cantano in inglese tedesco e brasiliano gli interpreti, i danzatori della compagnia Dorky Park, dimostrando versatilità, creando però un effetto di straniamento sullo spettatore che è costretto a tenere gli occhi sui sottotitoli proiettati in fondo alla scena.
Corpi normali e acrobatici si muovono a ritmi convulsi e cadenzati, assecondando o fuggendo il tempo musicale. Danza seria e riflessiva ma anche comica nelle imitazioni caricaturali del balletto classico; si alternano momenti di coralità, in cui vengo esibiti sorrisi smaglianti e ricchi abiti di scena, e assoli strazianti di corpi nudi.
La paura dell’altro, il vicino di casa o il compagno di vita, “l’immigrato della porta accanto”, aleggia sui personaggi; ogni rapporto sociale, cominciando dal matrimonio, è fatto a pezzi, tema toccato forse una volta di troppo, insieme alla sessualità perversa e repressa, al tradimento, alla pedofilia. Idea socialmente interessante anche se ormai poco originale e decisamente stiracchiata per almeno mezz’ora di troppo. Bravissimi gli interpreti.


Valentina Arena

Imbarazzo e vergogna dello sguardo

Ai Laboratori DMS i giovani artisti della Valdoca ripercorrono le figure universali del teatro: il buffone, il saltimbanco, il fool, ovvero il clown.

L'Officina Valdoca, aperta per volontà del Teatro Valdoca, integra al suo interno giovani artisti che maturano in un comune luogo poetico, sviluppando allo stesso tempo la propria individualità.
Opera si presenta come un'incorporazione da parte dell'attore di figure che fanno parte dell'immaginario teatrale, icone di un tipo di presenza scenica che, come in questo caso, è espressione di vergogna, di imbarazzo e di commozione. Il fulcro di questo immaginario, che è stato messo in scena come una pura provocazione allo sguardo, è il clown, che appare nelle vesti di Arlecchino recitando in playback il monologo finale dell'elfo Puck di William Shakespeare. Un velo tra il pubblico e la scena e sul fondo un altro velo con foro circolare, dietro il quale si trova un uomo nudo dal volto mascherato, mantengono intatta l'idea di un mondo che sfugge alla completa comprensione del pubblico, figure ricreate che oscillano tra l'apparente finzione e l'ignota realtà. Un burattino, lo scheletro di Pinocchio, è calato dall'alto: il clown cerca di muoverlo, di animarlo, per poi ricollocarsi nel proprio intimo protagonismo, quello in cui deve far ridere il pubblico, ma s'imbarazza e si vergogna per l'attesa generata dal silenzio. Cede così al pianto, al lamento più sofferto, altro momento che egli rende spettacolare attraverso la finzione: da dietro le sue orecchie emergono getti d'acqua che egli stesso fa fuoriuscire da una pompa e che bagnandolo rovinano il trucco del volto fiabesco al quale appartiene. Infine, sempre lui, il clown nelle vesti di Arlecchino e di tutte le altre figure che porta in sé ride fino al punto di animarsi violentemente, sbattendo ripetutamente la testa contro la parete, forse credendo di possedere una testa di legno come il suo burattino.
Questo è il risultato di una performance fine a stessa, che non sente la necessità di esprimere alcun senso, ma che proietta direttamente allo sguardo le immagini di un'esistenza teatrale che tutti conoscono e nelle quali si rispecchia l'artista. Probabilmente a causa della breve durata dello spettacolo e di una tensione che sembra non arrivare mai al culmine, non esplodendo in tutta la rabbia o la gioia, lo spettatore può iniziare a percepire con più suggestione ciò che gli viene mostrato solo nel momento in cui lo spettacolo finisce. Sembra che allo spettatore sia negata la possibilità di capire di più, lasciandolo sospeso… Ma forse è proprio in questa noncuranza di un ulteriore sviluppo che consiste l’intento.

Stefania Baldizzone

Il clown non riesce più a far ridere?

Officina Valdoca, Opera
“Opera" è un errore, una baracca di burattini montata male che da un momento all’altro potrebbe cadere. E ne è consapevole.

L’impossibilità del personaggio a uscire dai rigidi schemi fissati dal tempo, l’impossibilità ormai a far ridere un pubblico pagante, l’incapacità a essere clown o arlecchini. Questo è il primo pensiero che emerge dalla visione di Opera, presentato ai Laboratori DMS per la regia di Vincenzo Schino all’interno di un progetto di Officina Valdoca. La pianta del palcoscenico è disegnata e raccolta dentro una scatola di un tessuto bianco e trasparente, prima parete divisoria con quel pubblico pagante, ma anche divisoria da un mondo che si cerca di smontare pezzo per pezzo come un ingegno tecnico o un discorso grammaticale. Con Opera infatti prosegue la ricerca iniziata da tempo dallo scenografo e regista Schino, il quale indaga la concettualità e la materialità del personaggio sul palcoscenico, attuando una drammaturgia di suoni, luci e musiche. Dopo Operette, performance-spettacoli più densi e strutturati anche nella loro durata, Opera è organizzato su più piani linguistici come un discorso metateatrale, dove ogni gesto, oggetto e suono opera da significante. Lo spettacolo è completamente privo di dialoghi e parole, ma si serve di urla, rumori e pianti. Si apre con l’arrivo di un Arlecchino claudicante che si pone di fronte a un telo rosso che cade immediatamente dopo la sua uscita dal palcoscenico. Rimane solo la scatola di stoffa, perché un’ulteriore parete è caduta e rimangono i quatto lati del cubo tridimensionale a tenere sempre gli spettatori fuori dalla realtà di questi personaggi rotti, stilizzati, ormai impossibilitati a far ridere se stessi o il pubblico per il quale sono stati creati. Pinocchi tristi rimasti ormai forma e veste, dopo che i loro organi si sono lentamente essiccati. L’uomo nudo, che compare in fondo alla scena all’interno di un oblò vuoto, compie gesti ormai da macchina e produce un suono simile a quello prodotto da bambole di plastica. La luce, che in questo spettacolo riesce a scrivere come non mai una partitura di parole, attraversa il corpo dell’attore e lo modula nella sua perfezione. La luce, supporto sintattico, si muove sempre laddove l’oggetto o il corpo hanno perso importanza e vitalità ed è una luce sempre calda e gialla, mai artificiale e fredda. A un certo punto, due damerini di inizio secolo ridono in posa per una fotografia, ma il riso è convulso, isterico, marionettistico, patologico perchè ormai svuotato di una qualsiasi forma di verità. Il clown e l’Arlecchino sono ormai personaggi senza un personaggio, vivono dentro il contenitore vuoto e trasparente di stoffa, in un autismo isolante e auto-isolante, sono una testa vuota che si sbatte fragorosamente contro il muro e il suono arriva agli spettatori con un’esattezza e un fragore inquietanti. L’attore si abbassato a essere oggetto e gli oggetti si sono alzati all’elemento umano. La luce passa dall’uno all’altro componente, il clown che strepita per terra e la marionetta che scende verso terra, come un cencio calato, e si sofferma per un periodo lunghissimo su una maschera fatta roteare artificialmente in un palco ormai vuoto. Rimangono solo la luce e il suono regolare della maschera. Non ci sono più musiche, dopo che lo spettacolo è stato modulato con scelte di brani attinti a una tradizione mitteleuropea come arie di lirica, musica classica e canzoni popolari. La musica riesce a smorzare una messinscena che forse sarebbe risultata troppo patetica ed eleva il tutto a uno strato di poeticità unica. La conclusione invece è solo silenzio, gli attori si offrono al pubblico pagante e si inchinano ancora dietro la parete di stoffa, sono ancora quei personaggi senza personaggio.

Elena Bruni

Conoscere e sognare vuol dire cambiare


Dopo la rappresentazione di Leonce und Lena di Georg Büchner si sono incontrate due esperienze di teatro con i pazienti psichiatrici: quella della Compagnia Lenz Rifrazioni di Parma e quella del regista Nanni Garella, animatore dell’associazione Arte e Salute Onlus di Bologna. Con il coordinamento di Cristina Valenti.

Venerdì 29 febbraio, presso l’Auditorium dei laboratori DMS, si incontrano e si confrontano gli esponenti di due compagnie teatrali che hanno messo al centro del proprio lavoro l’esperienza con attori o non attori provenienti da realtà disagiate.
Maria Federica Maestri e Francesco Pititto, rispettivamente regista e drammaturgo di LENZ RIFRAZIONI, da una parte, Nanni Garella, direttore del progetto di collaborazione fra l’associazione ARTE E SALUTE ONLUS e la cooperativa Nuova Scena - Teatro Stabile di Bologna, dall’altra, espongono le proprie metodologie di lavoro, o meglio le proprie modalità, coordinati da Cristina Valenti, con la partecipazione di Massimo Marino e l’intervento di Claudio Meldolesi.
Cristina Valenti introduce la prima differenziazione esistente fra le due teatralità prese in considerazione, definendo queste esperienze non comuni e diffuse, ma di eccellenza all’interno dell’intero panorama europeo: la macro distinzione cui fa riferimento riguarda lo scopo, esistendo un teatro che opera nel campo del disagio, che si propone come obiettivo l’esito finale, e un teatro che si fa mediatore, un teatro che ha come fine la terapia attraverso lo strumento artistico. L’humus su cui si innestano il lavoro di Maestri-Pititto e quello di Garella è nutrito dalla convivenza e collaborazione dei due ambiti teatrale e terapeutico-sanitario. LENZ RIFRAZIONI lavora da otto anni con un gruppo di attori ex lungo degenti psichici del manicomio di Colorno (PR), proponendo esperienze laboratoriali ed esiti performativi, in collaborazione con il Dipartimento di Salute Mentale dell’AUSL di Parma. Nanni Garella, dal 1999, porta avanti il progetto ARTE E SALUTE con alcuni pazienti psichiatrici, cooperando con il Dipartimento di Salute Mentale dell’Azienda USL di Bologna Nord. E’ sottolineato, inoltre, il dato di continuità del lavoro che investe le due compagnie: non si tratta di esperienze brevi, occasionali, ma di veri e propri percorsi formativi, affiancati da medici psichiatri, che hanno una durata temporale che di solito copre l’anno di attività, per poi proseguire successivamente. L’intervento di Cristina Valenti si conclude su una specificazione: il teatro proposto e discusso da LENZ e da ARTE E SALUTE cui stiamo facendo riferimento è solo un aspetto dell’intero lavoro teatrale che le due compagnie producono, in quanto sia Maria Federica Maestri sia Nanni Garella espongono un’estetica teatrale che si allontana dall’ambito del disagio.
Dopo la visione di qualche minuto del video degli Atti Unici di Harold Pinter, spettacolo realizzato da Nanni Garella nel 2004, il regista prende la parola per delineare la sua esperienza, partita nel 1999 e conclusasi dopo cinque anni di lavoro, con l’obiettivo di realizzare e produrre spettacoli teatrali professionali con gruppi di pazienti con patologie gravi, selezionati attraverso un colloquio, che avevano frequentato un corso di formazione per allievi attori e uno per arti burattinaie Persone che spesso erano in difficoltà ad esprimersi interpretavano Pirandello e Shakespeare, con fantasia e competenza rese più acute dallo spessore delle loro esperienze umane. Non si è solo cercato di integrare teatro e terapia, ma il lavoro è stato condotto con il fine di rendere drammaturgicamente valida la presenza scenica legata al terreno del disagio. Costa fatica e lavoro questo progetto, sottolinea Garella, ma offre dei risultati notevoli: la tecnica d’improvvisazione e lo studio del personaggio, l’analisi del testo prima che esso sia imparato a memoria, il trasferimento da parte degli attori-pazienti della personale esperienza all’interno del lavoro drammaturgico e creativo ha permesso l’apprendimento di dati tecnici basilari ma essenziali alla costruzione di un modus operandi proprio e lontano da una metodologia programmata. La collaborazione con l’Arena del Sole ha significato, secondo le parole del regista: “far entrare dalla porta del teatro più importante di Bologna un gruppo di matti”, un pezzo della nostra cultura che non va emarginato. Tutto ciò ha permesso ai pazienti psichiatrici di essere scritturati come attori professionisti. Il passaggio non è stato immediato e scontato, ma ben presto si è palesata la capacità di queste persone, arrivate all’interno del gruppo in condizioni estreme – alcuni con una grave forma di analfabetizzazione di ritorno – di reggere il confronto con gli attori sani; questa collaborazione ha permesso loro di segnare punti di forza all’interno dell’opera di guarigione che stavano perseguendo. “Più precisamente, l’obiettivo di ARTE E SALUTE ONLUS è quello di ricomporre l’identità sociale, l’autonomia, la contrattualità delle persone sofferenti per trasformare le loro condizioni di vita attraverso il lavoro in campo artistico e intellettuale. Un lavoro vero, che realizzi prodotti interessanti non solo per chi li fa ma anche per un pubblico vasto, e che possa diventare fonte di occupazione per le persone che lo praticano”. L’intervento di Nanni Garella termina con l’augurio di poter continuare a essere socio di ARTE E SALUTE ONLUS, ma la speranza maggiore è riposta nella possibilità che la compagnia vada avanti con le proprie gambe. Se è vero – continua – che il teatro oggi più che mai ha bisogno di integrazione culturale, è necessario aprire le porte a varie diversità, ma bisogna anche che i risultati vengano depositati per essere fruibili da tutti coloro vogliano accostarsi a un teatro che ha insita la responsabilità sociale.
Interviene Massimo Marino a sottolineare la presenza della compagnia di Garella all’interno del panorama teatrale e culturale italiano; un’associazione che si è costituita come ONLUS e che, per raggiungere i propri scopi organizza spettacoli teatrali e di arti burattinaie; ha una testata radiofonica, Psicoradio; programma eventi di carattere culturale, conferenze, convegni e mostre; promuove interscambi culturali per intensificare i rapporti con le istituzioni pubbliche e private che svolgono esperienze analoghe. Attualmente sono coinvolti nel progetto quattro gruppi di allievi: Teatro di prosa (Compagnia Arte e Salute, 18 allievi); Teatro di figura (burattinai) e Teatro ragazzi (Compagnia Senza-Sipario, 12 allievi); Psicoradio (redattori radiofonici, 12 allievi).
Prima di passare la parola all’altra compagnia protagonista della giornata, Cristina Valenti sente l’esigenza di evidenziare un aspetto di cui Garella ha parlato in precedenza, ossia il rapporto fra attori psichiatrici e attori professionisti, collaborazione presente anche all’interno di LENZ RIFRAZIONI; cooperazione resa possibile in primis dalla continuità e che ha permesso la professionalizzazione di queste persone, in grado, con il tempo, di riuscire a collaborare autonomamente al fianco di attori professionisti. E’ una prospettiva che deve rientrare nel futuro di esperienze come queste, al di là dell’occasionalità con cui le prime compagnie si sono cimentate con la diversità all’inizio degli anni novanta.
Francesco Pititto, drammaturgo della compagnia LENZ RIFRAZIONI, costituitasi nel 1985, presenta uno spezzone del video dello spettacolo costruito su La morte di Danton di Georg Büchner, che va a chiudere la trilogia inaugurata da Woyzech e da Leonce und Lena (presentato, quest’ultimo ai laboratori DMS). Sottolinea l’importanza del luogo della rappresentazione: è la reggia di Colorno (PR) al cui interno esisteva il manicomio dove quegli stessi attori avevano trascorso trenta anni della propria esistenza. Dopo la visione del video, a intervenire è Maria Federica Maestri, regista della compagnia, la quale, nella commozione, afferma quella che è la sua personale visione del lavoro, definendolo come “un rapporto duro e violento con il prossimo, un rapporto di contiguità sensoriale con la fine”; si autodefinisce archeologa, perché va dentro alla rovina, alla ricerca non del colore, ma della traccia del colore. Le parole d’ordine sono: decostruzione, decrescita, decreazione. I pazienti permettono questa ricerca, in quanto appartengono a un altro tempo, il tempo del castigo all’innocente; in quanto sono testimoni diretti di un martirio durato venticinque, trenta anni. Tornare a Colorno, all’interno di quel luogo che li aveva imprigionati per tutti quegli anni, è stata un’esperienza rivoluzionaria, intesa come rovesciamento del destino. Il lavoro che Maria Federica Maestri conduce con i pazienti ex lungo degenti psichici è definito come un “capriccio, inteso come un azzardo del movimento fine a se stesso; automutilante, perché non ha futuro, ma l’unico futuro possibile è legato all’istante”. Il buon fine del lavoro risiede nel rovesciamento. Quelli che in scena diventano attori, in realtà sono vecchi adolescenti mai cresciuti, chiamati a disegnare un corpo e una mente che non esisteranno più. Le messe in scena non sono tratte da un testo, ma sono tratti del testo, percezioni, miraggi, variazioni. Pititto, leggendo qualche riga tratta dalla tetralogia büchneriana, afferma che ci sono molti punti in comune fra l’esperienza di LENZ RIFRAZIONI e quella di ARTE E SALUTE, ma le soluzioni adottate risultano differenti. Il suo lavoro drammaturgico prevede di partire da un testo, insieme agli attori, per giungere alla stesura di un copione personale, “da conservare con cura come se si trattasse di un gioiello di famiglia”. Lo spettacolo rappresenta un breve frammento rispetto alla teatralità intesa come work in progress: la drammaturgia è pre-durante-post l’esito finale. La parola detta è un tutt’uno con il corpo e con la psiche di chi l’afferma; tutto si mescola al testo, anche la follia, anche la speranza.
Il pubblico interviene chiedendosi se, attraverso la terapia con il teatro, i pazienti abbiano avuto dei miglioramenti dal punto di vista della salute psichica e fisica. Maestri risponde alla domanda riallacciandosi al discorso precedente legato al termine “decrescita”: non si tratta di decrescita biografica – afferma – ma tutt’altro. Il lavoro artistico ha permesso ai pazienti di recuperare istinti, sogni, tutto il copione personale fisico, psichico, dei desideri. Ovviamente, non si parla di guarigione, bensì di riapertura, di aumento delle prospettive di azione al di fuori dell’adempimento dei comportamenti quotidiani, legati al lavarsi, vestirsi, mangiare, ripetuti e scanditi da un ritmo preciso. Il progetto dura dodici mesi ed è portato avanti da otto anni; le condizioni di salute dei pazienti spesso sono gravissime, e il lavoro artistico contribuisce al miglioramento della qualità delle loro vite. Garella, dal canto suo, cerca di chiarire la domanda apportando dei dati: su quindici pazienti, all’inizio dell’attività, ognuno di loro aveva due o tre ricoveri all’anno; a distanza di sette anni, il numero dei ricoveri totale è sceso a tre o quattro; l’uso dei farmaci è stato notevolmente ridotto; ciò ha permesso agli organizzatori di responsabilizzare il lavoro dei pazienti, prevedendo per loro una possibilità di guadagno (400, 500 euro al mese per i mesi in cui sono scritturati) che, a livello indiretto, ha permesso loro di acquisire una centralità all’interno della famiglia, ove esistente, o comunque di dare più dignità alla propria vita. I pazienti vengono sottratti a una pura assistenza, nella quale si adagiano, per essere messi a contatto con difficoltà insite nel lavoro con gli altri; la finalità massima consiste nel permettere loro di uscire dal vortice, dal circolo del ricovero; ciò comporta una rivoluzione, in quanto non solo sono alleviate le sofferenze dei singoli, dal punto di vista fisico e psichico, ma ne trae vantaggio l’intero dipartimento di salute mentale.
Claudio Meldolesi prende la parola evidenziando la parentela esistente fra i gruppi che lavorano con gli psichiatrizzati: è il teatro a creare l’humus, il terreno adatto alla pacifica convivenza fra i diversi; non a caso, “il matrimonio fra gay è possibile sulla scena, non in società”. Riunirsi per scelta o vocazione teatrale con persone disagiate, imparando da esse, oltre che insegnando loro qualcosa, è l’elemento primario e imprescindibile da tenere in considerazione nell’analisi delle compagnie che operano nel campo del sociale. Non si tratta di un teatro conformato, che omologa gli attori psichiatrizzati, ma che persone con gravi forme di malattia siano diventati dei professionisti del teatro è qualcosa di eccezionale, che non va assolutamente sottovalutato. Riuscire a vedere l’arte in questa condizione è eccezionale. “Le scene fanno bene”, conclude Meldolesi.L’incontro sul teatro delle diversità sta giungendo a termine. Massimo Marino ripercorre sinteticamente la storia dei manicomi, soffermandosi in particolare sull’importanza cha ha avuto e continua ad avere, essendo tutt’ora fonte di dibattiti, la legge 180 del 1978, meglio nota come legge Basaglia, che impose la chiusura dei manicomi e regolamentò il trattamento sanitario obbligatorio, istituendo i servizi di igiene mentale pubblici. Il lavoro, in questo caso il lavoro artistico, continua Marino, permette a chi si ritrova in una situazione di disagio psichico di essere reinserito in un tessuto di rapporti sociali. E se pensiamo che non è passato molto tempo da quando queste persone venivano definite pazze nell’accezione negativa, alla stregua di criminali, ci rendiamo conto che qualche passo in avanti è stato fatto. Basterebbe, quindi, conoscere il mondo per poterlo cambiare.
Maria Pina Sestili