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Osservazioni, schizzi, resoconti, pensieri imperiodici dalla stagione del centro di promozione teatrale La Soffitta e non solo. Servizi, approfondimenti e recensioni a cura del laboratorio di critica teatrale "Lo sguardo che racconta" condotto da Massimo Marino presso la Laurea Specialistica in Discipline Teatrali dell’Università degli studi di Bologna.


Direttore: Massimo Marino

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Questo blog è realizzato dal laboratorio in completa autonomia dal Dipartimento di Musica e Spettacolo dell’Università di Bologna.




mercoledì 20 febbraio 2008

Intervista a Emma Dante

EMMA DANTE: INTORNO, DENTRO E FUORI PALERMO.


In riferimento a “Carnezzeria. Trilogia della famiglia siciliana”, lei mette in vita la famiglia, ventre claustrofobico per individui armati di silenzio alla conquista della terra madre. Ma “ ‘a famigghia” non è forse un pretesto o un punto di partenza per analizzare le pratiche di potere o di esclusione nella nostra società, e nello specifico della realtà siciliana?

La mia risposta è si. Io mi riferisco alla famiglia universale, come istituzione, come nucleo sociale in cui si comincia a formare l’individuo. Non mi riferisco alla “ famigghia”, non c’è una partenza, non è locale la questione, è universale. Sicuramente lo spunto è quello della famiglia siciliana, ma perchè il ceto sociale che io racconto non è la borghesia, è un ceto sociale che ha a che fare con il sottoproletariato, per cui anche se avessi raccontato la famiglia bolognese avrei parlato del sottoproletariato bolognese, perchè della borghesia non mi interessa parlare e quindi famiglia in quel senso. La famiglia come comunità, nucleo sociale in cui si cominciano ad instaurare i rapporti morbosi tra persone che vivono dentro la stessa casa, che condividono le stesse paure, che si nascondono dietro le stesse mura. Questo è il senso. E poi da lì ci sono tutti i segreti che vengono svelati. Mi sembra riduttivo dire “famigghia”, anche se la lingua dei miei spettacoli è il dialetto, i miei spettacoli non sono dialettali. Uso il dialetto ma non faccio teatro popolare, quindi parlo della famiglia, ma non di una famiglia particolare, del popolo, mi rivolgo ad un’umanità che è decadente, ai resti dell’umanità. È anche una metafora, non sono personaggi reali, sono interpretati.


Nella sua drammaturgia è riscontrabile una coesistenza temporale di passato-presente-futuro. Tempo già viscerale della parola materia. La sua lingua è ritagliata in base a un valore mnemonico della parola o in base ad un’esigenza di verità del presente? E soprattutto dietro una palese difficoltà di ricezione linguistica subentra forse la necessità di una percezione altra, visiva?


La difficoltà della comprensione linguistica dei miei spettacoli non è in realtà una difficoltà. Non perchè io lavoro sulla visionarietà, io non lavoro sulla visionarietà perchè voglio fare capire agli spettatori le cose che non arrivano con la parola. La visionarietà arriva da un processo artistico creativo mio e degli attori, io non faccio mai delle scene che sono visionarie, non parto mai dalle soluzione, dall’estetica del fatto. Non mi preoccupo mai di farmi capire, non mi interessa essere capita, io preferisco non essere capita. Se questo non essere capita comporta la mia libertà assoluta. Se invece io devo trovare un compromesso nella creazione per farmi capire, io sento di non star facendo più un percorso artistico, sento di dovermi preoccupare di qualcosa che non mi riguarda, cioè la comprensione degli altri non mi riguarda e per cui la visionarietà, il fatto che non ci sia una spiegazione ai miei spettacoli, questa cosa mi rasserena, è una cosa che mi da pace, perchè non voglio spiegarlo il teatro, non voglio spiegare la mia storia, anche perchè non c’è niente da spiegare, sono suggestioni che arrivano al pubblico, che anche se non capisce, si porta a casa qualcosa e soprattutto ognuno capisce a modo suo. Il tempo. C’è una frammentazione temporale nei miei spettacoli, che è abbastanza esplosa, non si identifica mai un presente, un passato, un futuro, è tutto insieme, per cui nel momento in cui una cosa accade è già passata, è un ribaltamento continuo del tempo, per cui l’azione che viene fatta avviene nel presente, ma questo presente contiene in sé sia il passato che il futuro, non è un presente assoluto, ma è un presente che comporta degli sbalzi temporali. Per cui, ad esempio Vita mia è uno spettacolo che racconta la morte di un ragazzino però lo fa vedere ancora in vita, una vita che non riesce a morire, un tempo che è il prima e il dopo la morte contemporaneamente. Sono convinta che un corpo quando muore non muore subito, o comunque se muore un ragazzino di vent’anni, la madre non ce la fa a vederlo morto e continua a vederlo vivo. Per cui qual è il punto di vista che noi vogliamo assumere in questa storia? Io quello che mi sono presa, è quello della madre, per cui avendo io pubblico gli occhi della madre vedo questo ragazzino vivo come lo vede lei, ma lui è morto. Quindi non si capisce se questo sia un tempo della vita o un tempo della morte.


Già dal 2003 lei è direttore artistico del Rossofestival di Caltanissetta. Esperienza che anno dopo anno le ha permesso di circoscrivere un suo spazio di lavoro abbinato a una rivivificazione di un territorio che non è Palermo. È però riscontrabile la linea di ricerca che le produzioni ospiti negli anni hanno rappresentato: molta attenzione a quelle che sono le espressioni più significative soprattutto nell’area siciliana. Questa esperienza si configura come una fuga da Palermo o come l’estrema necessità di trovare “fuori” quella Palermo che è invece “dentro” al suo operare artistico quotidiano?

È più semplice. A Palermo non me l’hanno fatto fare e a Caltanissetta si. E’ questione di possibilità di fare una cosa e impossibilità di farla. In questi anni a Caltanissetta c’è stata un’amministrazione di centro-sinistra che ha creduto nel mio lavoro, ha rischiato anche di portare un certo tipo di teatro nella provincia della provincia, cioè nel cuore della provincia. Per cui quest’amministrazione locale ha scommesso nel creare questo piccolo evento, che soprattutto i primi anni ha destato dei disagi tra il pubblico che era abituato a vedere un altro tipo di teatro. È anche vero che io ho portato degli spettacoli comunque forti e non subito il pubblico è stato pronto ad accettarli, perché ci vuole anche una formazione del pubblico. Oggi, arrivati alla sesta edizione del festival il pubblico è più preparato. Ho portato Lo Studio su Medea di Antonio Latella, in cui c’è questa Medea completamente nuda dall’inizio alla fine, con questa Barbara senza vestiti addosso. Per cui portare uno spettacolo così in una città difficile da questo punto di vista è stato un azzardo che l’amministrazione locale mi ha permesso, a Palermo questa cosa non è successa.


Qual è la direzione, la linea programmatica del festival?

Ho portato mPalermu che è un mio vecchio spettacolo di 9 anni fa, che l’assessore mi ha chiesto volutamente perchè voleva fare un piccolo percorso, poichè loro credono in una progettualità. Io che sono siciliana e sto lì da sei anni con un compenso di 3400 euro (è giusto che lo dica) ho inserito nel cartellone il mio ultimo spettacolo, Il festino, che praticamente in Sicilia ha fatto soltanto Caltanissetta, non ha altre date, per cui era anche un modo per farlo vedere ai siciliani. Il festival presenta Mpalermu che è il mio primo spettacolo e Il Festino che è l’ultimo; poi ci sono il concerto di Carmen Consoli, che è un concerto in cui c’è un’attrice che recita i testi che io ho scritto, ma non è un mio spettacolo, lo spettacolo di Latella, poi andrà in scena I capitoli dell’infanzia di Davide Enia, poi Un anno con tredici lune di Fassbinder della compagnia Egumteatro, e poi Alberto Nicolino che fa un lavoro sulle zolfare, Stirru. La discesa.

La cosa più interessante non è solo la possibilità di poter creare uno spazio di lavoro ma di porre anche attenzione a quelle che sono le radici di un territorio. Il Festival prende il nome di Rosso Festival perché vi è un recupero di un drammaturgo che è Rosso di San Secondo…

Quest’anno non l’abbiamo fatto, ma l’anno scorso sono riuscita a trovare una somma all’interno del festival per produrre uno spettacolo di un testo di Rosso di San Secondo, L’ospite indesiderato, con la regia di Ninni Bruschetta. È stato il primo spettacolo prodotto dal festival, non ha girato tanto perché questo non è un festival che ha una grande organizzazione, è gestito dal comune di Caltanissetta e io faccio la direzione artistica, però purtroppo io ho anche il lavoro con la compagnia per cui non mi posso occupare di tutto, però siamo riusciti a trovare una somma all’interno di questo budget ridicolo con cui io faccio il festival per produrre questo spettacolo affidato a Nutrimenti terresti, che è questa compagnia di Ninni Bruschetta che ha fatto anche ultimamente lo spettacolo di Fava.

La sua drammaturgia nasce all’interno di un gruppo di lavoro consolidato, la compagnia Sud Costa Occidentale, una modalità di scrittura scenica, strettamente legata alla carnalità dell’attore. Come crea questa sinergia tra attori-scena-personaggi?

E’ un lavoro lungo che si sviluppa ormai da nove anni, che ha a che fare con una ricerca del metodo più che una ricerca della poetica, cioè noi stiamo cercando un metodo e questo metodo continuamente varia, trova delle strade nuove, si perde, si ritrova, ritorna sulla via maestra. La ricerca in fondo è questo: è un luogo e il tempo dove accadono le cose, e dove vengono smentite nello stesso momento in cui accadono. Per cui è difficile dire in due parole come questo si crea, si compone, perché è tutto legato, intanto moltissimo al tempo, il tempo per noi è fondamentale, perché il tempo da la qualità, cioè più noi abbiamo la possibilità di lavorare, più lungo è il tempo di lavoro, più le cose si approfondiscono chiaramente, meno provi e più superficialità rendi, è normale che è così, per cui il tempo è il fattore principale. Poi c’è un altro dato importante, che è il mio rapporto con gli attori durante le prove, cioè loro improvvisano e io gli dò i paletti, gli costruisco le situazioni, gli dò le suggestioni da fuori, però loro in compenso mettono quasi in discussione le cose che io gli dico, cioè c’è un continuo dialogo incontro-scontro sulle cose e questo crea sicuramente un cortocircuito.


Camilleri nella prefazione al suo libro, recentemente pubblicato (Carnezzeria) usa, in riferimento ai suoi testi, l’espressione –dialogo in pretta parlata palermitana-. Tale espressione però non caratterizza il suo ultimo lavoro “Il festino” in cui il soliloquio diventa una possibilità di “esserci”. Tecnicamente lo spettacolo è un monologo, lontano dalla coralità dei suoi lavori precedenti. Cosa spinge in sede di scrittura ad utilizzare questo tipo di scrittura compositiva? È un’esigenza strutturale, di significato o un canale comunicativo privilegiato all’interno di una materia ancora più complessa, dominata da logiche di natura drammatica e non da strutture performativo-monologanti?

Quando io faccio uno spettacolo, non mi preoccupo del genere che vado a fare, io penso che un certo tipo di teatro, almeno quello che faccio io, sia indefinibile, non ha la possibilità di essere definito, di essere acchiappato, di essere formalizzato fino in fondo, per cui non è che io prima di fare uno spettacolo dico adesso farò un monologo oppure adesso farò uno spettacolo corale, intanto i miei spettacoli anche se sono monologhi, sono sempre corali, perché Gaetano non parla una sola voce, parla le voci della sua storia e le voci della sua storia sono anche voci di bastoni, inanimate, perché sono voci che lui dà ai suoi compagni immaginari sulla scena, per cui io non l’ho mai chiamato monologo, lo chiamo “ soliloquio” perché nella solitudine noi non è vero che siamo soli, c’è un verso bellissimo di una poetessa “ senza la mia solitudine mi sentirei più sola”, ed è vero no? Cioè la solitudine è il luogo in cui una persona si mette a confronto anche con se stessa, dove tutto può essere capito molto di più la propria no mens leng, dove uno può fare comodamente la cacca e sentirsi pulito mentre lo fa, senza il giudizio degli altri. Allora Il festino è un soliloquio dove Paride non ha vergogna, dove mette in mostra tutte le sue paure e tutte le sue debolezze, questi bastoni che lui mette in piedi sono la sua grandissima competenza, lui è competente in questa cosa qui, e mostra la sua competenza. Cioè, lui cosa ha fatto tutta la vita? Ci sono persone che tutta la vita riescono a fare una cosa, e quando la fanno cominciano a morire. È un paradosso, ma è vero che quando tu trovi la strada, invece di essere il momento della rinascita, è il momento in cui cominci a morire. E questo fa Paride, lui trova il baricentro di tutte le cose e comincia a spegnersi, perché ormai il suo ruolo non ha alcun valore, non serve più a niente. E quindi non è un monologo, è il suo incontro disperato di solitudine con tutte le sue voci.

Valentina Miceli e Paola Stella Minni

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