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Osservazioni, schizzi, resoconti, pensieri imperiodici dalla stagione del centro di promozione teatrale La Soffitta e non solo. Servizi, approfondimenti e recensioni a cura del laboratorio di critica teatrale "Lo sguardo che racconta" condotto da Massimo Marino presso la Laurea Specialistica in Discipline Teatrali dell’Università degli studi di Bologna.


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domenica 16 marzo 2008

Svelare l'Ab-uso


La compagnia romana Accademia degli Artefatti si confronta con due testi della complessa drammaturgia di Tim Crouch, qui affiancati in un progetto unico. Attraverso essi si indaga l'idea di realtà, quella stessa con cui scendiamo a patti quotidianamente e di cui, in un certo senso, abusiamo. Due spettacoli che minano le dimensioni consuete del teatro, svelandone i meccanismi.



In molti casi scoprire l’etimologia di una parola può essere un valido punto di partenza per avvicinarsi alla comprensione di un argomento; quella del verbo “abusare” riconduce al latino ūti, ovvero “servirsi di”. Abuso, quindi, come utilizzo eccessivo, ripetuto, perverso, in questo caso di quello che è il principale mezzo di relazione tra esseri umani: la comunicazione. L’espressione verbale, gestuale (e nello specifico, teatrale) tra più individui è il nucleo fondamentale di ogni rapporto e il veicolo primario attraverso il quale si manifesta il potere, inteso come facoltà da parte di fattori agenti di operare più o meno esplicitamente su un determinato stato di cose. Ed è partendo da questi postulati che il lavoro di Tim Crouch si sviluppa: autore e attore inglese contemporaneo, attraverso i suoi due spettacoli My Arm e An Oak Tree esplora i meccanismi di potere esercitati tramite il linguaggio, depauperato ormai del valore semantico della parola, corrotta e prostituita, svuotata e logorata dallo sfruttamento a cui è costantemente sottoposta.
La comunicazione allora diventa un’arma inconsapevole, lasciata libera nelle mani di chi è in grado di rendersene conto e pronta a colpire coloro che sono ormai privi degli strumenti per accorgersene. In questa frattura si gioca la possibilità di abusare o subire, in una società dove i rapporti di forza si manifestano fin nella nostra dimensione più intima, nella vita quotidiana, sulla scena.
Il fascino del lavoro svolto in prima istanza da Crouch, attraverso una scrittura corrosiva e acuta e riproposto in Italia dall’Accademia degli Artefatti in maniera pressoché identica, è proprio quello di affrontare queste determinate questioni presentandole in ambito teatrale, territorio certo non facile, ma del quale l’autore si serve proprio per la sua complessità data, lavorando sui diversi livelli che ne compongono la struttura, prima sezionandoli e poi facendoli esplodere. Un primo abuso, dunque, nei confronti del mezzo prescelto, e al quale se ne concateneranno altri, prima verso gli interpreti stessi e infine verso gli spettatori.
La compagnia romana, proseguendo un percorso intrapreso alcuni anni fa con Crimp, Kane, Pirandello e Handke, sulla ricerca dei meccanismi della comunicazione e sull’esplorazione di quel territorio che definiamo attualità, affronta i due piccoli esperimenti restituendoceli in una sorta di dittico, pre-testi per indagare la verità, per svelare i meccanismi posti dietro la costruzione di una situazione comica o drammatica. A Bologna il Progetto Ab-Uso è stato messo, al Teatro San Martino dal 7 al 10 febbraio, nella sua forma definitiva, dopo un primo studio presentato la scorsa estate al Festival di Santarcangelo.
In My Arm l’esperienza di cui il protagonista (Matteo Angius) ci rende partecipi è il racconto di trent’anni della sua vita in un’ora circa, una costrizione temporale attraverso la parola, che riassume, plasma in una nuova forma lo scorrere delle cose. La sala illuminata indica che siamo tutti partecipi, che non c’è separazione, che tutti dobbiamo contribuire al nostro bisogno di essere lì; magari con oggetti del nostro quotidiano, portafoglio, sigarette, cappello, presi in prestito dall’attore per rappresentare persone e luoghi del suo vissuto, del suo spettacolo, che in fondo diventa anche il nostro, ripreso da una telecamera live che proietta su un piccolo schermo, filtro attraverso il quale la realtà si fa finzione, cinematografia. Così si svolge il racconto drammaturgico che parte dall’infanzia, quando il protagonista, per sfida o per noia, porta un braccio sopra la testa che da quel momento in poi non abbasserà mai più. Una storia assurda, a tratti divertente a tratti commovente, dove la verità della narrazione si interseca con la sua razionale impossibilità. Sul palco un musicista crea improbabili colonne sonore mentre, sul fondale, un altro schermo evoca in una proiezione a grandezza naturale il doppio filmico del narratore, in un loop esistenziale di presenza fisica e suo riflesso virtuale.
Diversa è la situazione proposta in An Oak Tree, dove la struttura è resa più complessa a cominciare dagli interpreti che cambiano ogni sera: sia il protagonista (in tale ruolo si alternano Angius, Benedetti e Girotto), sia l’attore che lo affianca, il quale, ignaro di tutto, riceve il copione direttamente sulla scena ed è privo di indicazioni registiche. Uno spettacolo, quindi, che ha inizio prima della storia che racconta: l’incontro tra un ipnotizzatore da baraccone e un suo spettatore, che si rivela essere il padre di una bambina uccisa dal primo in un incidente d’auto. I meccanismi attraverso cui l’azione viene giostrata, seppur dichiarati all’inizio, appaiono via via impossibili da cogliere, mentre i livelli di comprensione si fanno molteplici: piani separati di emozioni reali ed espressioni attoriali che a un tratto collimano, creando una continua metamorfosi della vita in arte e viceversa. Grazie a un piano drammaturgico che resta sempre ambiguo e aleatorio, lo spettatore è costretto a una partecipazione sempre vigile e attiva dell’intelletto, di ricostruzione e montaggio rispetto a ciò che accade sulla scena. Ma è anche un pubblico che si trova in bilico tra la volontà di partecipare al gioco metateatrale dello spettacolo d'ipnosi, e la consapevolezza del suo ruolo di osservatore esterno, al quale non è permesso interagire, poiché la negazione della sua presenza nella situazione teatrale viene stabilita dall'attore consapevole, sin dall'inizio. Un numero di prestigio che confonde e lascia orfani di quelle certezze di cui il teatro solitamente ci rassicura: dai cambi di scena, resi grazie alle luci e alla musica da “one man show” che segnano, almeno in un primo momento, il passaggio tra finzione e realtà, all'altalenante avvicendamento tra lo statuto del personaggio che prende forma nel corpo dell’attore e la dimensione naturale e inconsapevole di quest’ultimo. Tutto questo contribuisce a creare il gioco di scatole cinesi attraverso cui lo spettacolo realizza una lettura acuta del potere dell’illusione che diventa, mercificato, puro e semplice intrattenimento.

Giulia Tonucci

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