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Osservazioni, schizzi, resoconti, pensieri imperiodici dalla stagione del centro di promozione teatrale La Soffitta e non solo. Servizi, approfondimenti e recensioni a cura del laboratorio di critica teatrale "Lo sguardo che racconta" condotto da Massimo Marino presso la Laurea Specialistica in Discipline Teatrali dell’Università degli studi di Bologna.


Direttore: Massimo Marino

Caporedattore: Serena Terranova

Redattori: Beatrice Bellini, Lorenzo Donati, Alice Fumagalli, Francesca Giuliani, Maria Cristina Sarò

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Segreteria organizzativa: Valeria Bernini, Tomas Kutinjac

Hanno scritto: Valentina Arena, Stefania Baldizzone, Valeria Bernini, Elena Bruni, Alessandra Consonni, Alessandra Coretti, Elisa Cuciniello, Irene Di Chiaro, Serena Facioni, Antonio Guerrera, Sami Karbik, Tomas Kutinjač, Roberta Larosa, Nicoletta Lupia, Valentina Miceli, Paola Stella Minni, Andrea Nao, Saula Nardinocchi, Vincenzo Picone, Giusy Ripoli, Maria Pina Sestili, Giulia Tonucci

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Questo blog è realizzato dal laboratorio in completa autonomia dal Dipartimento di Musica e Spettacolo dell’Università di Bologna.




venerdì 28 marzo 2008

Una piacevole finzione che si fa ricordare

I danzatori entrano in scena come cloni in divisa, al ritmo di una marcia tecno. Seguono una mappatura disegnata sul pavimento, una trama fatta di codici fisici e forme geometriche. Contemporaneamente automi e individui di un “Ballo Capace di Agonia”.

La Stoa, scuola del movimento ritmico e filosofico cesenate diretta da Claudia Castellucci, approda ai laboratori Dms con due dei suoi balli, “Ballo Capace di Agonia” e “Pro Loco Isto”.

Sopra una musica ritmica si intravedono i cloni entrare nella stanza dai lati della platea, mentre questa è ancora illuminata, in opposizione alla scena. Con una graduale inversione di luce, le ombre si dispongono geometricamente e danno inizio all’esercizio ritmico. Un’alchemica visione di corpi prende forma espressa da un vorticoso insieme di automi che si sincronizzano, si isolano, si completano. Immagini ridotte a brandelli dai consecutivi salti ridondanti, che per l’attore sono un accomodamento del proprio epicentro, creano spaesamento allo spettatore.
Partendo da questo ballo agonizzante del gruppo di ombre, prendono forma i prigionieri dipinti da Van Gogh che si frantumano in sospiri di colore. Nuovamente i corpi formano una classe femminile in gonnella che esegue diligentemente un allenamento come le fanciulle immaginate da Wedekind.
Tutti i loro passi, gli incontri e gli scontri convergono in uno smarrimento scenico, persi nel quale gli anonimi soggetti inseguono una mappatura tratteggiata sul suolo nero; i ballerini celano con i loro piedi ogni tratteggio e prendono il posto di un indicazione con la loro forma antropomorfa. Questo è il percorso che le menti degli spettatori stanno assecondando inconsciamente, ormai persuasi dalle loro fantasie, tramutati in mero punto di fuga del loro soggettivo cono ottico.
I cloni si muovono velocemente, comunicano con il pubblico creando e scomponendo forme geometriche, che assumono il significato di lettere, come se personificati in un codice Morphe comunicassero in funzione di alieni nelle menti del loro pubblico. Il battito della musica cadenzata rappresenta la punteggiatura in questo linguaggio.
Tutto si conclude in un ora di spettacolo, intenso, concentrato, riassumibile come: tante ombre nere che appaiono, stupiscono e svaniscono.
Ma tutto questo non esiste, in realtà, perché è solo un sogno.

Valeria Bernini



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