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Osservazioni, schizzi, resoconti, pensieri imperiodici dalla stagione del centro di promozione teatrale La Soffitta e non solo. Servizi, approfondimenti e recensioni a cura del laboratorio di critica teatrale "Lo sguardo che racconta" condotto da Massimo Marino presso la Laurea Specialistica in Discipline Teatrali dell’Università degli studi di Bologna.


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domenica 16 marzo 2008

Paolini, Hugo e l'acquario

I miserabili, di Marco Paolini
Uno sguardo sulla contemporaneità dialogando con Margaret Thacher e cantando sulle note dei Mercanti di liquore.
Marco Paolini con Miserabili porta in scena il nostro tempo attraverso una serie di immagini chiave che vanno dalla seconda guerra mondiale al microcip, passando per la palestra, l’oroscopo e la mania di fare soldi del leader contemporaneo.
L’attore alle 20,45 è già in platea a raccontare i precedenti episodi dei suoi Album tutti incentrati sulla figura di Nicola (Paolini stesso) durante le varie fasi della sua vita. Lo spettacolo che va a cominciare, quindi, si pone come l’ultima tappa di una lunga ricerca. Le linee guida del lavoro sono due: un dialogo ideale con Margaret Thacher e l’idea, presa in prestito da Victor Hugo, dell’uomo miserabile che vive l’impatto con la belle epoque tradotta in termini novecenteschi, secondo un felice parallelismo tra il periodo di rottura di fine Ottocento e il nostro tempo. Prima dell’inizio effettivo, quando il teatro è ormai pieno e sono entrati in scena anche i Mercanti di Liquore, collaboratori preziosi nella resa dello spettacolo, l’attore afferma serafico: “Ci sarà un momento in cui vi perderete, perchè questa non è la vostra storia ma la mia”.
Il prologo di Paolini affascina e coinvolge ma viene presentato come captatio benevolentiae mentre sa di excusatio non petita.
Lo spettacolo si sviluppa tra monologhi incalzanti e canzoni, proponendo un affresco del nostro secolo: dall’economia di mercato, al problema del lavoro, dalle fabbriche, al petrolio, al 1979, l’anno in cui la Thatcher e Khomeyni diventano i rappresentanti ideali di una frattura tra due mondi, quello occidentale, che corre frettoloso verso il suo futuro, e quello orientale, che torna lentamente a un passato medievale. In questa ripida discesa verso le cause che hanno prodotto l’Italia attuale, lo spettacolo si conclude con l’idea di libertà come partecipazione espressa nella nota canzone di Giorgio Gaber, antitetica a quella promossa dal ministro inglese secondo cui esistono “solo uomini, donne e famiglie” in un eccesso di individualismo che annulla la società.
Il senso di tutto lo spettacolo è espresso dal secondo principio della termodinamica di cui si serve lo stesso Paolini che, in opposizione al primo (nulla si crea, nulla si distrugge, tutto si trasforma), spiega scientificamente come alcune cose rimangano immutabili, come non tutto riesca a cambiare, ma esista in alcuni aspetti del nostro secolo una testardaggine permanente e cieca: “Se hai un acquario e ti fai una frittura, non potrai mai riavere l’acquario”.
In questa giustapposizione di eventi, una sorta di lista della spesa della contemporaneità, Paolini, dimostra di aver acquisito una grande maturità attoriale, se si guarda alla pulizia e alla precisione di gesti e parole, ma, allo stesso tempo, di aver perso quella naturalezza che ne faceva un attore/narratore meno artificioso.
Effettivamente, però, come lo stesso attore affermava nel suo prologo, durante lo spettacolo ci si perde, non tanto perché la storia raccontata è una storia personale, quanto perché probabilmente risulta impossibile condensare un secolo in uno spettacolo e, forse, è sbagliato anche solo provarci.
Sulla scena c’è troppo, gli eventi storici, le ideologie, le memorie e la Memoria, in un meelting pot esplosivo che non convince del tutto.
Nicoletta Lupia

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