Chi siamo

Osservazioni, schizzi, resoconti, pensieri imperiodici dalla stagione del centro di promozione teatrale La Soffitta e non solo. Servizi, approfondimenti e recensioni a cura del laboratorio di critica teatrale "Lo sguardo che racconta" condotto da Massimo Marino presso la Laurea Specialistica in Discipline Teatrali dell’Università degli studi di Bologna.


Direttore: Massimo Marino

Caporedattore: Serena Terranova

Redattori: Beatrice Bellini, Lorenzo Donati, Alice Fumagalli, Francesca Giuliani, Maria Cristina Sarò

Web designer: Elisa Cuciniello

Segreteria organizzativa: Valeria Bernini, Tomas Kutinjac

Hanno scritto: Valentina Arena, Stefania Baldizzone, Valeria Bernini, Elena Bruni, Alessandra Consonni, Alessandra Coretti, Elisa Cuciniello, Irene Di Chiaro, Serena Facioni, Antonio Guerrera, Sami Karbik, Tomas Kutinjač, Roberta Larosa, Nicoletta Lupia, Valentina Miceli, Paola Stella Minni, Andrea Nao, Saula Nardinocchi, Vincenzo Picone, Giusy Ripoli, Maria Pina Sestili, Giulia Tonucci

ATTENZIONE

Questo blog è realizzato dal laboratorio in completa autonomia dal Dipartimento di Musica e Spettacolo dell’Università di Bologna.




venerdì 28 marzo 2008

BALLO CAPACE DI AGONIA

Nello spazio dei Laboratori Dms della Soffitta il 21 febbraio la Stoa, scuola del movimento ritmico e filosofico guidata da Claudia Castellucci, presenta il suo penultimo lavoro: un ballo che sviluppando in sé i modi essenziali della lotta, li ricrea attraverso nuove, impassibili, forme espressive.


L’impressione che si ha è di uno schieramento militare. Due file di ragazzi e ragazze entrano da un lato e dall’altro della sala, le luci ancora accese si abbassano creando il silenzio tra gli spettatori, le due file avanzano su una musica cadenzata e si fermano sul palcoscenico davanti a noi. Sono vestiti tutti nello stesso modo: camicia e kilt neri, calzoncini e scarpe bianche. Da questo momento tutto diventa ritmo e movimento.
I ragazzi si muovono perfettamente all’unisono eseguendo movimenti diversi a canone; si muovono creando dei cerchi e dei quadrati, “rompendo le righe” solo nel passaggio da una figura geometrica all’altra, con piccole fughe che vogliono forse significare il tentativo di tirarsi fuori da queste forme che li inglobano. Ma poi tutto si ricompone.
Sul palcoscenico, per terra, croci colorate guidano i loro movimenti, unico elemento scenografico. La musica cresce e decresce di volume e ritmo cosi come la qualità e la quantità dei movimenti, a tratti scatenati, violenti, salti e corse frenate, a tratti fluidi e ondulati mantenendo sempre la scansione ritmica. L’esercizio ginnico si lega a un rituale tribale in cui gli “attori” sono posseduti dalla musica, fuori dalla loro coscienza. Un ballo, non una danza, atleti, non ballerini, che mirano alla purezza del movimento inespressivo, alla coordinazione maniacale quasi meccanica. Una macchina da guerra di cui non riusciamo a distinguere i singoli e isolati pezzi ma che cogliamo nell’insieme di un unico movimento. Duelli si alternano a momenti di combattimento collettivo per poi lasciare soli gli individui chiusi nella propria agonia.
Il pubblico è completamente ipnotizzato.


Valentina Arena

QUATTRO GIORNI CON LA STOA

Ai Laboratori Dms Claudia Castellucci racconta l' esperienza della Stoa, scuola teatrale di movimento fisico e filosofico, da lei fondata a Cesena nel 2004. Di seguito si è tracciato un resoconto di quanto è emerso, nell'arco di quattro intense giornate, attraverso un ciclo di incontri. Dal seminario introduttivo, passando dalla visione diretta dei Balli e concludendo con un intervista collettiva fra studenti universitari e allievi della Stoa, ha preso forma la consapevolezza di un lavoro artistico che si pone tra didattica e continua ricerca.

Finalmente l’arcano è stato svelato, i diversi interrogativi che fin’ora in molti ci eravamo posti su cosa fosse la Scuola dietro la quale troneggiava il nome della Socìetas Raffaello Sanzio, hanno avuto risposta. In una manciata di giornate la Stoa, prima attraverso le parole di colei che ne è madre e ambasciatrice, Claudia Castellucci, poi grazie ai corpi ritmici, sulla scena, dei suoi scolari, si è rivelata, in quel linguaggio che appare, arcaico e postmoderno, apparentemente facile ed estremamente articolato al tempo stesso. Un breve percorso che ci ha permesso di intravedere non solo una diversa possibilità di teatro (dove per diversità, paradossalmente, intendiamo un teatro molto più vicino al significato primo del termine di quanto non lo sia gran parte della spettacolarità proposta sulle scene), ma anche di riflettere su argomenti più ampi, che possono spaziare dalla storia dell’arte alla filosofia, dall’importanza del linguaggio al valore dell’insegnamento in senso lato. Una successione d’incontri dei quali possiamo ora ricucire impressioni, ricordi e nuove nozioni apprese, e ritrovarci infine fra le mani un lembo di quel vestito bellissimo e variopinto che è l’arte, la cui stoffa attinge i propri pigmenti dalla vita e da tutto ciò che ne è forza generatrice
Il primo appuntamento che ci permette di entrare in contatto con questa realtà cesenatica, tappa iniziale del tentativo di penetrare nel fitto universo pedagogico della Scuola teatrale di movimento fisico e filosofico, avviene sottoforma di seminario, il cui titolo “Angolo retto e Salto. Geometria e cronologia del ballo”, sembra rimandare più a dottrine pitagoriche o a indecifrabili richiami massonici, che a una discussione sui balli realizzati da un gruppo di normalissimi, seppur capacissimi, adolescenti.
Claudia Castellucci non si perde in giri di parole e introduce se stessa e la sua scuola in maniera sintetica e precisa, ponendo sin da subito la nostra attenzione su quelli che sono i due principi su cui si regge il lavoro all’interno della Stoa, un’esperienza che si esplica nel ballo e che trova i suoi due nuclei generatori appunto nell’angolo retto e nel salto. Si procede per gradi, entrambi questi concetti hanno bisogno di essere sviscerati e analizzati, e per farlo occorre partire da più lontano, ripercorrere quegli studi che forse sono gli stessi che questa Maestra propone o presenta ad ogni nuova “generazione” scolastica; non viene ad annunciare il suo lavoro, ma ci introduce volontariamente all’approccio teorico che sta alla base della sua Scuola, virando la prima parte del suo discorso verso uno dei più importanti pittori del secolo appena passato, l’olandese Piet Mondrian, e regalandoci una magistrale lezione di storia dell’arte contempoaranea.
Così, procedendo alla scoperta di come nella storia dell’arte visiva si sia giunti nei primi decenni del Novecento, attraverso l’astrattismo, alla rappresentazione della natura in forme essenziali e primarie, il discorso sembra allontanarsi senza ritorno dal nostro punto di partenza e trascinarci verso ambiti di riflessione apparentemente distanti; quello che si va a toccare “è un argomento fisico, geometrico, metafisico”, come preannuncia la Castellucci, per il quale Mondrian, considerato nell’evoluzione del suo percorso artistico, viene tirato in ballo come portatore assoluto del concetto di angolo retto; dall’osservazione e dall’analisi dei suoi lavori è possibile allora capire cosa possa celare questa forma geometrica nella sua apparente linearità. Ponendolo a
confronto con l’arte del suo tempo, ne risulta che se nella pittura impressionista era forte l’esigenza visiva del passaggio continuo della materia, dato dal movimento (per questo la presenza di elementi naturali come le foglie e l’acqua) e realizzato nell’esperienza del colore sulla tela, in Mondrian invece, la realtà è bloccata e spogliata del suo impulso vitale, nel tentativo di scoprire lo scheletro in cui esso scorre. Quel movimento che futuristi e cubisti successivamente fanno emergere, dichiarandolo nella sua scomposizione e illustrandolo, a volte in maniera quasi didascalica, si avverte nelle opere del pittore astratto nella sua condizione radicale, impresso nelle linee verticali e orizzontali che s’intersecano, che ricadono le une nelle altre, escludendo qualsiasi altra forma, rifiutando nella loro essenziale partitura persino la linea obliqua.
D’obbligo, poi, ricordare allora la definizione euclidea di angolo retto e servirsi di questo riferimento anche per scivolare indietro nel tempo, fino alle origini della nostra cultura classica (e moderna), e da lì ripartire dopo aver scovato il significato puro dei termini troppo consumati e corrotti nell’oggi per farne un uso appropriato. La nostra Insegnante ci guida allora nell’etimologia del termine “misura”, una misura che come spiega “non è un concetto con un fine solamente utilitario, ma c’è in esso un aspetto etico, essendo riferito alla misura in sé”. Da qui allora si può tornare indietro, al valore primario che assume l’angolo retto in quanto metro di misurazione, e impossibile da misurare se non con un altro identico a sé. Quella a cui si fa riferimento in generale è una misurazione dello spazio, una misura nel senso di orientamento e non già una grandezza definita.
Un po’ alla volta la lunga parabola digressiva rientra nei binari della direzione maestra e le nozioni apprese circa il primo dei due elementi cardine trovano la loro giustificazione nell’applicazione descritta del ballo: a quest’ultimo l’angolo retto garantisce di essere misura del tempo più che dello spazio, poiché è proprio la dimensione temporale ad avere un valore e uno scopo; a questo l’angolo retto consegna, inoltre, il punto cruciale tra le linee verticali e orizzontali lungo una superficie – del quadro come del palcoscenico. Nella sua concretizzazione sulla scena, infatti, la libertà che ne deriva non allude a un girovagare, tantomeno espressivo dei sentimenti, per il palco, né è contemplata come disordine e spiritualità; la possibilità di trascendenza che riguarda le linee ortogonali, infatti, non appartiene al pensiero, ma all’inorganico, a qualcosa cioè che non cambia mai, che ha una sua forma fissata e un valore fisico, fisiologico.
A questo punto si può introdurre il secondo elemento basilare del ballo inteso dalla Stoa, ovvero il salto; in esso si attesta, attraverso l’altezza, l’essenza della perpendicolarità, in altri termini, la trascendenza. E’ un salto sul posto, che definisce il proprio movimento non nello spazio ma nel tempo e per questo contribuisce ad abolire il concetto d’inizio e di progressione, mentre sono presenti linee ortogonali di andata e ritorno. Tutto ciò nella pratica ha un riscontro effettivo maggiore poiché è il salto stesso che diventa una metrica intrinseca all’azione,
per cui ogni passo corrisponde a un battito che altro non è se non l’esemplificazione del tempo. Basandosi sulla cadenza, il ballo percuote una misura; la cadenza pone un ritmo, una ricorrenza di battute laddove non c’è nulla di precedentemente regolato, stabilito. Di conseguenza, il ballo diventa una forma di misura autogena, una pratica di determinazione temporale, e quindi esistenziale; sono i fisici rintocchi di un tempo che rivela e che custodisce in sé una dimensione che riguarda l’anima di ognuno.
Claudia Castellucci ci svela così l’essenza dei suoi lavori, il punto di partenza che è al contempo salto nel vuoto, caduta; il passo cadenzato dei balli evoca, infatti, il precipitare: una regolarità nella caduta che costituisce il ritmo e che, insistendo su un punto piuttosto che alludere ad un allargamento, circoscrive fortemente lo spazio in una dimensione ristretta, ponendo in primo piano l’uso degli arti inferiori. Tutto ciò motiva la profonda differenza che separa la danza dal ballo, non essendoci in quest’ultimo, inoltre, alcuna volontà di rappresentazione, né previsto alcun tipo di interpretazione. E’ presente in esso una propria psicologia, o meglio un elemento psichico che va al di là del soggetto che vi partecipa, ma da questo viene assorbito per poi tornare fuori sottoforma di pensiero che immediatamente si fa gesto.
Sul palco vuoto, allora, ogni volta aleggia una condizione di caos invisibile perché ciò che accadrà è già presente in potenza; è un nulla che ospita tutto quello che può accadere ed è compito dell’individuo che prende parte al ballo, andare ad abitare questo spazio, trovarvi la propria posizione e quindi agire e misurare. Nel ballo non esiste il concetto di errore perché, ciò che è comunemente inteso come tale, assume al suo interno lo statuto di qualcosa che è successo, un inciampo che non viene vissuto come sbaglio, ma come una porta per un altro tipo di passo. E’ il “dio Caso” che si manifesta - e a noi, non resta che aspettare la sua prossima epifania.

Nei successivi incontri, fra letture, seminari e in particolare grazie a un’intervista collettiva con gli studenti del Dams, Claudia Castellucci racconta precisamente cos’è la Stoa,"scuola sul movimento ritmico” di Cesena, da lei creata tre anni fa ma già pronta a chiudere i battenti. La forma della Stoa è quella di un'assemblea localizzata: ragazzi all'incirca dai sedici ai vent'anni si riuniscono per iniziare un percorso di coscienza individuale e collettiva della fisicità. La giovane età è necessaria: la Stoa è un luogo dove non possono avere dimora aspettative viziate, un'attività legata a un desiderio specifico non sarà mai totalmente libera. "Con l'avanzare dell'età - afferma la Castellucci - le persone possono crearsi aspettative verso la Raffaello Sanzio, mentre questo rapporto non può e non deve esserci. Quello che è in gioco non è il teatro ma una pratica personale che si fa insieme agli altri". Gli incontri settimanali sfociano nell'elaborazione di balli, due dei quali sono stati presentati ai laboratori Dms, all'interno della stagione teatrale della Soffitta: Ballo capace di agonia e Pro Loco Isto. La Stoa è un punto d'incontro tra idee e movimenti, è una matrice all'interno della quale si sviluppano interazioni, riflessioni sulle modalità e sulle forme, più che sul contenuto delle azioni stesse. Il ballo è dunque la pratica che al meglio sintetizza il concetto alla base della scuola: è come un merletto, un pizzo. Durante gli incontri della Stoa, dopo una fase intensa di ginnastica, s'iniziano a creare dei movimenti ginnici. La ginnastica serve per preparare i muscoli, per affrontare la fatica e il movimento. Si costruiscono via via passi sempre più complessi, diventano ritmici, da una battuta regolare alternata fino alla battuta del salto. Il salto che crea il ritmo, battendo i piedi, e il salto che si compie seguendo pedissequamente la musica. Nel ballo la parte più importante del corpo sono le gambe che dirigono gli spostamenti. I passi seguono un andamento ortogonale ma anche radiale. Tornando alla metafora del pizzo, i passi effettivamente sono come un ricamo. Non raccontano una storia, sono pura decorazione. Occorre seguire il ricamo, le sue vie, le sue direzioni. I salti si accumulano e si mettono in sequenza, il nesso è il ritmo, quel Super Ritmo che riguarda tutta l'arte. La coralità è la caratteristica più evidente nel ballo, gli individui compiono movimenti uguali, legati dal ritmo, dalle regole interne. Ma al contempo emergono nettamente le individualità dei singoli: i movimenti hanno sfumature di colore diverse, come diverse sono le interpretazioni e gli sguardi. Indubbiamente le peculiarità dei singoli sono esaltate dai costumi, tutti rigorosamente identici. Durante le esecuzioni si stagliano dal coro delle guide, individui scelti nella fase di creazione del ballo che si alternano nell’indicare cambiamenti di direzione e nel ricordare i passi, attraverso la voce o anche solo col movimento. La memoria dei passi si crea con la ripetizione. Capita che si prendano appunti per evitare di dimenticare la volta dopo il movimento imparato, ma la memoria del corpo non si costruisce a parole. È necessario comprendere che nel ballo non si tende a una rappresentazione esteticamente perfetta di qualcosa, del ricamo. Dunque non esiste errore: lo sbaglio è un movimento che arriva inaspettato ma che può condurre a altro, può innescare meccanismi diversi e individuali, per poi recuperare la traiettoria collettiva. La difficoltà maggiore, dicono gli allievi, è proprio abolire il concetto di errore: non è forse un problema comune della società in cui viviamo, credere che una direzione deviante sia sbagliata?

Scavare nell’essenza del ballo della Stoa può portare anche a far emergere alcuni interrogativi su cosa il ballo non deve e non può essere.
Il ballo non è un rito. Rimane decisamente sotto questa dimensione, probabilmente evocata dalla struttura e dall'organizzazione della Stoa: può evocarlo per la periodicità degl'incontri, per l'importanza del luogo di riunione, per il fatto di convergere in uno spazio che è sempre lo stesso, il legame rispetto a un tempo periodizzato, che ha all’interno un orientamento temporale determinato, ad esempio, dalle feste; in questi termini può ricordarlo. Ma la Stoa, come è la stessa Castellucci a ribadirlo, si pone molto al di sotto della soglia del rito, non compromettendosi con la complicanza data dal discorso sulla salvezza intrinseco nelle azioni rituali: nel ballo non c'è salvezza, né tanto meno è ricercata.
Allo stesso modo il ballo non si prefigge un ruolo terapeutico. E' certamente uno strumento forte che da un lato aiuta o enfatizzata la creazione di rapporti sociali, dall'altro porta a utilizzare il corpo in modo più profondo e consapevole. La ginnastica durante gli incontri diventa infatti essenziale per imparare a gestire al meglio le proprie possibilità e la fatica. Il ballo in sé però non ha nulla di terapeutico.
Il ballo della Stoa, inoltre, non è da intendersi come una pratica di massa, comunitaria, da festa di paese. Il ballo folklorico è legato ad una storicità negativa, intrattiene un rapporto col luogo, la terra e le origini, ma in fondo si tratta di una retorica falsa, inattuale, "fasulla". La Stoa segue una direzione opposta: ritorna l'importanza delle origini, dello spazio, perchè è il ballo stesso a dar vita ai luoghi. "Il ballo della Stoa nasce a Cesena, ma non è legato alla città in quanto punto atavico, in quanto realtà romagnola. Non è tanto IL posto a suscitare il ballo quanto il fatto di incontrarsi, il legame che ognuno di noi crea con quel luogo, cosicché il ballo suscita il posto". Il ballo dovrebbe essere inquadrato in un aspetto spazio-temporale: il suo contesto naturale non è teatrale perché la pienezza del significato la si ha nella scuola, e quindi nel luogo, nel posto che viene raggiunto settimanalmente per due o tre anni. "Portarlo in un teatro, continua la Castellucci, è qualcosa di spurio, significa teatralizzare una cosa che ha senso nel momento in cui la si fa. Aprire questa concezione spazio-temporale significa offrire il ballo a una probabile devastazione".
La Stoa, dice la Castellucci, nasce da un impulso e dal relativo desiderio di fermarlo: "se l'impulso è qualcosa che ha a che fare con l'istinto, in questo caso è un impulso raffreddato dalla preparazione e dal tentativo di capire l'istinto stesso e, alla base, c'è un forte desiderio di generazione". Questo desiderio di generare si sintetizza perfettamente nella figura dell'insegnante. Altro che scuola eretica! In un certo senso la Stoa è una scuola di tipo classico, perché fondata sul rapporto speciale fra insegnante e allievo, dove l'insegnante si trova a generare chi lo genera. E la scuola è una fabbrica del vincolo, quel vincolo che i ragazzi scelgono nel momento stesso in cui decidono di entrare nella Stoa, quel metro che è incarnato dall’insegnante, madre scelta e dunque generata dai figli. “Non ho mai fatto selezioni - dice la Castellucci - sono gli allievi a scegliere me, non si entra nella Stoa perché si vogliono saldare amicizie. L’amicizia c’è, nasce nel tempo inevitabilmente ma non è contemplata come un'attività che favorirebbe l'incontro dell'uno con l'altro. Prima di sapere i nostri nomi occorre che passino almeno quattro o cinque incontri, perché il nome è la cosa più importante da sapere e non si può conoscere come una curiosità… ‘Come ti chiami tu? Cosa fai e da dove vieni?’… Tutto questo che può essere visto come espressione di amicizia ma in realtà è violenza”. Generare non significa dunque creare repliche di sé, si annulla nella reciproca generazione un modello di riferimento teleologico, in cui l’insegnamento diventa una semplice trasmissione personalistica di saperi. Il maestro è una guida che propone moduli e stabilisce dei modelli, in un’indispensabile forma parametrica dove i vincoli sono metri di paragone che dispongono ad agire, a discutere e a porre in discussione il vincolo in quanto tale,
ma anche il sé in rapporto al vincolo. “Proprio perché non esiste la creazione dal punto di vista teatrale, nel senso che l'aspetto della creazione dei passi è ridotto a un grado piuttosto basso, è chiaro che io pongo dei filati (per continuare la metafora del pizzo) e ognuno poi cuce alla sua maniera. Ma la direttiva del filo è unica”. Così nel ballo è evidente un modo di ballare assolutamente individuale sebbene il passo sia il medesimo. Non c’è un problema di margine e di libertà rispetto ai modelli dati dall’insegnante perché il parametro diventa un metro di paragone da cui partire, e il concetto di misura, in senso greco, comporta delle decisioni morali, etiche, pesanti e estremamente personali. “La cosa del tutto inessenziale è che una volta fatti i passi, si può scoprire che è meglio farli in altro modo, e quindi tutte le persone possono proporre di farli in altro modo, ma questo aspetto è giusto metterlo in ombra perché credo non sia interessante la creazione collettiva. Il passo non ha un valore estetico di per sé, ma il grado di valore del passo è che tutti lo fanno. Nel momento stesso in cui viene assunto il passo acquista valore, il rapporto parametrico ha valore”.



di Paola Stella Minni e Giulia Tonucci





Una piacevole finzione che si fa ricordare

I danzatori entrano in scena come cloni in divisa, al ritmo di una marcia tecno. Seguono una mappatura disegnata sul pavimento, una trama fatta di codici fisici e forme geometriche. Contemporaneamente automi e individui di un “Ballo Capace di Agonia”.

La Stoa, scuola del movimento ritmico e filosofico cesenate diretta da Claudia Castellucci, approda ai laboratori Dms con due dei suoi balli, “Ballo Capace di Agonia” e “Pro Loco Isto”.

Sopra una musica ritmica si intravedono i cloni entrare nella stanza dai lati della platea, mentre questa è ancora illuminata, in opposizione alla scena. Con una graduale inversione di luce, le ombre si dispongono geometricamente e danno inizio all’esercizio ritmico. Un’alchemica visione di corpi prende forma espressa da un vorticoso insieme di automi che si sincronizzano, si isolano, si completano. Immagini ridotte a brandelli dai consecutivi salti ridondanti, che per l’attore sono un accomodamento del proprio epicentro, creano spaesamento allo spettatore.
Partendo da questo ballo agonizzante del gruppo di ombre, prendono forma i prigionieri dipinti da Van Gogh che si frantumano in sospiri di colore. Nuovamente i corpi formano una classe femminile in gonnella che esegue diligentemente un allenamento come le fanciulle immaginate da Wedekind.
Tutti i loro passi, gli incontri e gli scontri convergono in uno smarrimento scenico, persi nel quale gli anonimi soggetti inseguono una mappatura tratteggiata sul suolo nero; i ballerini celano con i loro piedi ogni tratteggio e prendono il posto di un indicazione con la loro forma antropomorfa. Questo è il percorso che le menti degli spettatori stanno assecondando inconsciamente, ormai persuasi dalle loro fantasie, tramutati in mero punto di fuga del loro soggettivo cono ottico.
I cloni si muovono velocemente, comunicano con il pubblico creando e scomponendo forme geometriche, che assumono il significato di lettere, come se personificati in un codice Morphe comunicassero in funzione di alieni nelle menti del loro pubblico. Il battito della musica cadenzata rappresenta la punteggiatura in questo linguaggio.
Tutto si conclude in un ora di spettacolo, intenso, concentrato, riassumibile come: tante ombre nere che appaiono, stupiscono e svaniscono.
Ma tutto questo non esiste, in realtà, perché è solo un sogno.

Valeria Bernini



lunedì 24 marzo 2008

Azione figlia della parola

Leonce e Lena di Büchner: il ritorno alla vita oltre la patologia, di Lenz rifrazioni


Non è la prima volta che la compagnia Lenz Rifrazioni dedica i suoi progetti monografici alla drammaturgia tedesca: Hölderin, Lenz, Kleist, Goethe e Büchner, protagonista del laboratorio di quest’anno, sono stati i principali autori trattati dal gruppo che, attraverso i diversi testi, compie un percorso di formazione attoriale coinvolgendo pazienti di comunità terapeutico-riabilitative a cui sono affiancati attori professionisti.
Il testo di Büchner è stato tradotto e rielaborato da Francesco Pititto con la regia e la realizzazione scenica di Maria Faderica Maestri. Lo scopo del lavoro è stato quello di guidare i pazienti psichiatrici lungo un percorso di presa di coscienza della parola e del gesto.“E’ come se dopo aver tolto l’ultima maschera fosse venuta via anche la faccia” così la regista spiega che la mente di questi attori segue una linea separata dalla quotidianità, rifiutando i ruoli che la vita ci assegna.
Parrucche e abiti candidi, volti imbiancati di talco sono i costumi e i trucchi scelti dalla Maestri; questo candore evidenzia l’intenzione büchneriana di criticare il mondo cortigiano e accademico sette-ottocentesco ed è sottolineato da sedie bianche, tipo ospedale, dove prendono posto gli attori. L’atmosfera è di profonda tristezza e sofferenza, accentuata da un’illuminazione fioca e dalla “melankonisch” musica di Schubert in sottofondo.
Lo spazio scenico, come tutta la regia è simbolista ed essenziale: un prato, realizzato con tappetini verdi, è il luogo dove si rotolano gli attori e rudimentali bambole sono gli oggetti dei loro giochi, che rimandano alla tragedia che queste persone hanno vissuto e vivono nel loro essere pazienti psichici, inconsapevoli della propria fisicità. Le voci si sovrappongono: alcuni attori recitano con il copione in mano, quale aiuto logistico per la memoria, sottolineando l’importanza che la parola acquista, non tanto come singola battuta quanto come germe della gestualità corporea.
Il matrimonio finale rappresenta gioia, festa e la possibilità, per queste persone, di riacquistare coscienza della propria esistenza come corpi e anime, nonostante la patologia.


Sami Karbik

Anna Karenina

Mi sono seduto con la convinzione, quasi paura, che dopo un’intera giornata non avrei saputo reggere quattro ore di spettacolo, non avrei potuto gustarmi a fondo ciò che avevo davanti o perlomeno evitare che la mia mente cominciasse a vagare spinta da quel temibile mostro che spesso si annida nel teatro: la noia.
L’incipit sembrava confermare i miei pregiudizi, che pian piano però svanivano trasformandosi in immagini e suoni di un mondo e di una storia ricamata con maestria, la storia di “Anna Karenina”.
La vicenda apparentemente romantica dell’amore “extraconiugale” contrastato e vincolato dalle convenzioni sociali e dalle ossessioni amorose, diventa substrato di un fitto terreno di simboli e segni giocati dagli attori in scena. Questa si trasforma in una macchina perfetta, in rapporto continuo con la fisicità e il gesto degli attori, che con le loro movenze, i loro salti e la loro iperattività non possono che richiamare la “biomeccanica” Mejercoldiana.
Nekrosius crea un mondo a sé stante, dove ogni oggetto acquista autonomia divenendo significato e significante, dove la parola viene dimenticata e sovrastata dallo spazio.
Tutto ciò non ostacola, ma sostiene la storia raccontata da Tolstoj, che trova nel tempo non solo la sua metafora, ma il suo raggio d’azione.
Un tempo che non è semplicemente condizione accidentale o causale, ma totalmente esistenziale, il tempo per amare, il tempo per vivere, il tempo per morire; un tempo che sembra ricordarci che esiste proprio quando crediamo di essere felici, è lì che sorge dinnanzi ai nostri occhi, come quando Anna Karenina si perde continuamente nei suoi desideri e nei suoi sogni continuamente disillusi.
Enormi orologi attraversano la scena, figure emblematiche di una realtà intangibile, portando via con sé le vicende familiari, politiche e amorose.
Alla fine dei tre atti mi ritrovo ancora una volta a discutere e riflettere sul tempo, ma con altre prospettive e per altre ragioni.

Vincenzo Picone

domenica 16 marzo 2008

Paolini, Hugo e l'acquario

I miserabili, di Marco Paolini
Uno sguardo sulla contemporaneità dialogando con Margaret Thacher e cantando sulle note dei Mercanti di liquore.
Marco Paolini con Miserabili porta in scena il nostro tempo attraverso una serie di immagini chiave che vanno dalla seconda guerra mondiale al microcip, passando per la palestra, l’oroscopo e la mania di fare soldi del leader contemporaneo.
L’attore alle 20,45 è già in platea a raccontare i precedenti episodi dei suoi Album tutti incentrati sulla figura di Nicola (Paolini stesso) durante le varie fasi della sua vita. Lo spettacolo che va a cominciare, quindi, si pone come l’ultima tappa di una lunga ricerca. Le linee guida del lavoro sono due: un dialogo ideale con Margaret Thacher e l’idea, presa in prestito da Victor Hugo, dell’uomo miserabile che vive l’impatto con la belle epoque tradotta in termini novecenteschi, secondo un felice parallelismo tra il periodo di rottura di fine Ottocento e il nostro tempo. Prima dell’inizio effettivo, quando il teatro è ormai pieno e sono entrati in scena anche i Mercanti di Liquore, collaboratori preziosi nella resa dello spettacolo, l’attore afferma serafico: “Ci sarà un momento in cui vi perderete, perchè questa non è la vostra storia ma la mia”.
Il prologo di Paolini affascina e coinvolge ma viene presentato come captatio benevolentiae mentre sa di excusatio non petita.
Lo spettacolo si sviluppa tra monologhi incalzanti e canzoni, proponendo un affresco del nostro secolo: dall’economia di mercato, al problema del lavoro, dalle fabbriche, al petrolio, al 1979, l’anno in cui la Thatcher e Khomeyni diventano i rappresentanti ideali di una frattura tra due mondi, quello occidentale, che corre frettoloso verso il suo futuro, e quello orientale, che torna lentamente a un passato medievale. In questa ripida discesa verso le cause che hanno prodotto l’Italia attuale, lo spettacolo si conclude con l’idea di libertà come partecipazione espressa nella nota canzone di Giorgio Gaber, antitetica a quella promossa dal ministro inglese secondo cui esistono “solo uomini, donne e famiglie” in un eccesso di individualismo che annulla la società.
Il senso di tutto lo spettacolo è espresso dal secondo principio della termodinamica di cui si serve lo stesso Paolini che, in opposizione al primo (nulla si crea, nulla si distrugge, tutto si trasforma), spiega scientificamente come alcune cose rimangano immutabili, come non tutto riesca a cambiare, ma esista in alcuni aspetti del nostro secolo una testardaggine permanente e cieca: “Se hai un acquario e ti fai una frittura, non potrai mai riavere l’acquario”.
In questa giustapposizione di eventi, una sorta di lista della spesa della contemporaneità, Paolini, dimostra di aver acquisito una grande maturità attoriale, se si guarda alla pulizia e alla precisione di gesti e parole, ma, allo stesso tempo, di aver perso quella naturalezza che ne faceva un attore/narratore meno artificioso.
Effettivamente, però, come lo stesso attore affermava nel suo prologo, durante lo spettacolo ci si perde, non tanto perché la storia raccontata è una storia personale, quanto perché probabilmente risulta impossibile condensare un secolo in uno spettacolo e, forse, è sbagliato anche solo provarci.
Sulla scena c’è troppo, gli eventi storici, le ideologie, le memorie e la Memoria, in un meelting pot esplosivo che non convince del tutto.
Nicoletta Lupia

Svelare l'Ab-uso


La compagnia romana Accademia degli Artefatti si confronta con due testi della complessa drammaturgia di Tim Crouch, qui affiancati in un progetto unico. Attraverso essi si indaga l'idea di realtà, quella stessa con cui scendiamo a patti quotidianamente e di cui, in un certo senso, abusiamo. Due spettacoli che minano le dimensioni consuete del teatro, svelandone i meccanismi.



In molti casi scoprire l’etimologia di una parola può essere un valido punto di partenza per avvicinarsi alla comprensione di un argomento; quella del verbo “abusare” riconduce al latino ūti, ovvero “servirsi di”. Abuso, quindi, come utilizzo eccessivo, ripetuto, perverso, in questo caso di quello che è il principale mezzo di relazione tra esseri umani: la comunicazione. L’espressione verbale, gestuale (e nello specifico, teatrale) tra più individui è il nucleo fondamentale di ogni rapporto e il veicolo primario attraverso il quale si manifesta il potere, inteso come facoltà da parte di fattori agenti di operare più o meno esplicitamente su un determinato stato di cose. Ed è partendo da questi postulati che il lavoro di Tim Crouch si sviluppa: autore e attore inglese contemporaneo, attraverso i suoi due spettacoli My Arm e An Oak Tree esplora i meccanismi di potere esercitati tramite il linguaggio, depauperato ormai del valore semantico della parola, corrotta e prostituita, svuotata e logorata dallo sfruttamento a cui è costantemente sottoposta.
La comunicazione allora diventa un’arma inconsapevole, lasciata libera nelle mani di chi è in grado di rendersene conto e pronta a colpire coloro che sono ormai privi degli strumenti per accorgersene. In questa frattura si gioca la possibilità di abusare o subire, in una società dove i rapporti di forza si manifestano fin nella nostra dimensione più intima, nella vita quotidiana, sulla scena.
Il fascino del lavoro svolto in prima istanza da Crouch, attraverso una scrittura corrosiva e acuta e riproposto in Italia dall’Accademia degli Artefatti in maniera pressoché identica, è proprio quello di affrontare queste determinate questioni presentandole in ambito teatrale, territorio certo non facile, ma del quale l’autore si serve proprio per la sua complessità data, lavorando sui diversi livelli che ne compongono la struttura, prima sezionandoli e poi facendoli esplodere. Un primo abuso, dunque, nei confronti del mezzo prescelto, e al quale se ne concateneranno altri, prima verso gli interpreti stessi e infine verso gli spettatori.
La compagnia romana, proseguendo un percorso intrapreso alcuni anni fa con Crimp, Kane, Pirandello e Handke, sulla ricerca dei meccanismi della comunicazione e sull’esplorazione di quel territorio che definiamo attualità, affronta i due piccoli esperimenti restituendoceli in una sorta di dittico, pre-testi per indagare la verità, per svelare i meccanismi posti dietro la costruzione di una situazione comica o drammatica. A Bologna il Progetto Ab-Uso è stato messo, al Teatro San Martino dal 7 al 10 febbraio, nella sua forma definitiva, dopo un primo studio presentato la scorsa estate al Festival di Santarcangelo.
In My Arm l’esperienza di cui il protagonista (Matteo Angius) ci rende partecipi è il racconto di trent’anni della sua vita in un’ora circa, una costrizione temporale attraverso la parola, che riassume, plasma in una nuova forma lo scorrere delle cose. La sala illuminata indica che siamo tutti partecipi, che non c’è separazione, che tutti dobbiamo contribuire al nostro bisogno di essere lì; magari con oggetti del nostro quotidiano, portafoglio, sigarette, cappello, presi in prestito dall’attore per rappresentare persone e luoghi del suo vissuto, del suo spettacolo, che in fondo diventa anche il nostro, ripreso da una telecamera live che proietta su un piccolo schermo, filtro attraverso il quale la realtà si fa finzione, cinematografia. Così si svolge il racconto drammaturgico che parte dall’infanzia, quando il protagonista, per sfida o per noia, porta un braccio sopra la testa che da quel momento in poi non abbasserà mai più. Una storia assurda, a tratti divertente a tratti commovente, dove la verità della narrazione si interseca con la sua razionale impossibilità. Sul palco un musicista crea improbabili colonne sonore mentre, sul fondale, un altro schermo evoca in una proiezione a grandezza naturale il doppio filmico del narratore, in un loop esistenziale di presenza fisica e suo riflesso virtuale.
Diversa è la situazione proposta in An Oak Tree, dove la struttura è resa più complessa a cominciare dagli interpreti che cambiano ogni sera: sia il protagonista (in tale ruolo si alternano Angius, Benedetti e Girotto), sia l’attore che lo affianca, il quale, ignaro di tutto, riceve il copione direttamente sulla scena ed è privo di indicazioni registiche. Uno spettacolo, quindi, che ha inizio prima della storia che racconta: l’incontro tra un ipnotizzatore da baraccone e un suo spettatore, che si rivela essere il padre di una bambina uccisa dal primo in un incidente d’auto. I meccanismi attraverso cui l’azione viene giostrata, seppur dichiarati all’inizio, appaiono via via impossibili da cogliere, mentre i livelli di comprensione si fanno molteplici: piani separati di emozioni reali ed espressioni attoriali che a un tratto collimano, creando una continua metamorfosi della vita in arte e viceversa. Grazie a un piano drammaturgico che resta sempre ambiguo e aleatorio, lo spettatore è costretto a una partecipazione sempre vigile e attiva dell’intelletto, di ricostruzione e montaggio rispetto a ciò che accade sulla scena. Ma è anche un pubblico che si trova in bilico tra la volontà di partecipare al gioco metateatrale dello spettacolo d'ipnosi, e la consapevolezza del suo ruolo di osservatore esterno, al quale non è permesso interagire, poiché la negazione della sua presenza nella situazione teatrale viene stabilita dall'attore consapevole, sin dall'inizio. Un numero di prestigio che confonde e lascia orfani di quelle certezze di cui il teatro solitamente ci rassicura: dai cambi di scena, resi grazie alle luci e alla musica da “one man show” che segnano, almeno in un primo momento, il passaggio tra finzione e realtà, all'altalenante avvicendamento tra lo statuto del personaggio che prende forma nel corpo dell’attore e la dimensione naturale e inconsapevole di quest’ultimo. Tutto questo contribuisce a creare il gioco di scatole cinesi attraverso cui lo spettacolo realizza una lettura acuta del potere dell’illusione che diventa, mercificato, puro e semplice intrattenimento.

Giulia Tonucci

sabato 15 marzo 2008

Progetto ab-uso. Esperimenti di drammaturgie contemporanee

Al Teatro San Martino gli Artefatti interpretano le sperimentazioni drammaturgiche di Tim Crouch attraverso un ab-uso del “nuovo” attore sospeso tra arte e vita.

Un ab-uso che attraverso il linguaggio ricerca lo spazio impercettibile tra finzione e realtà. L’Accademia degli Artefatti sperimenta la messinscena di My arm e An oak tree dell’attore/autore britannico Tim Crouch, in scena al Teatro San Martino dal 5 al 10 Febbraio. Entrambi gli spettacoli sembrano condividere la stessa necessità, realizzandosi come performance art, unendo alla narrazione supporti video e sonori, una telecamera live e un proiettore, come se lo sguardo e l’attenzione dello spettatore dovessero focalizzarsi sulla realtà stratificata delle cose. My arm, prima piéce di Tim Crouch che ha debuttato nel 2003 a Edimburgo, è il monologo di un trentenne che ha sfidato la propria resistenza fisica e, dopo essersi sottoposto a un lungo periodo senza parlare e poi senza andar di corpo, vuole dimostrare per quanto tempo riuscirà a tenere un braccio alzato sopra la testa, un arto sarà così protagonista della vicenda personale di un’intera esistenza. An oak tree è il testo di Tim Crouch che più gioca sull’ambiguità tra finzione e realtà, portando in scena lo spettacolo di un ipnotizzatore. La scelta fatta dall’autore per realizzare sulla scena questa drammaturgia prevede che l’interprete che affianca l’attore principale cambi a ogni replica, ricevendo il copione solo in scena, dunque ignaro di ciò che dovrà interpretare. Non un’improvvisazione ma la curiosità di lasciarsi sorprendere da una storia che prende vita nel momento stesso della sua realizzazione sulla scena, per questo il secondo attore sarà guidato dal primo che deciderà quando e in che modo comunicargli le informazioni sulle battute e sui movimenti. Gli Artefatti hanno seguito in modo coerente l’idea dell’autore, alternando gli attori della compagnia, oltre gli attori esterni, per cogliere le varie reazioni nelle differenti repliche. Matteo Angius, attore dell’Accademia degli artefatti, interprete di entrambi i testi di Crouch evidenzia, mediante una recitazione a tratti spaesante, la continua metamorfosi della finzione nella realtà e viceversa, della vita nel teatro e viceversa. L’attore, infatti, parla agli spettatori, si colloca fra loro e allo stesso tempo mantiene la sua posizione sulla scena, finché i due ruoli confondendosi sembrano assumere un’unica identità.

Stefania Baldizzone

La rinascita dall'improvvisa fuga

LEONCE E LENA, fragili e preziosissimi, con malati psichiatrici ex lungo degenti
di Lenz Rifrazoini

Il teatro dei laboratori DMS si veste di un insolito nitore rispetto alle sanguigne tonalità delle poltrone e al caldo legno delle pareti; indossa questo nuovo abito per ospitare la compagnia Lenz Rifrazioni, che presenta, a partire da un adattamento drammaturgico di Francesco Pititto, “Leonce und Lena”, opera di George Büchner al quale Lenz dedica, con il sul lavoro e l’intensa attività laboratoriale, uno studio con ex lungo degenti psichiatrici affiancati da attori professionisti. Tutti sulla scena con parrucche bianche e viso incipriato, a richiamare il clima ottocentesco nel quale si svolge l’azione. Coppie di Leonce e Lena sedute frontalmente lungo i bordi della scena, mentre due figure a bordo campo con parrucche nere e chiodo in pelle, armeggiano con formiche giganti e orridi serpenti di gomma. Stringendo al petto delle grosse bambole di pezza, retaggio d’infanzia, Leonce e Lena parlano, portando nel loro parlato tutte le difficoltà della loro condizione; è così che il copione, oggetto bandito dalle scene se non in occasione delle prove, diventa ora preziosissimo; ognuno ne ha bisogno non solo per sopperire alle prevedibili difficoltà insite nel processo di memorizzazione delle battute o del testo, ma perché memoria concreta di ciò che sono in quel momento; non più persone con gravi patologie fisiche e psichiche, ma solo due giovani ribelli che, per sfuggire l’orribile abisso di un futuro del quale non sono padroni, cercano la fuga dalla costrizione e finiscono per scegliersi; ma questa volta liberamente, senza il giogo della predeterminazione, solo sospinti dal vento del caso fortuito, e come sempre accade, dalle illogiche ragioni dell’amore. I nostri Leonce e Lena sono fragili, e per questo preziosissimi; scaraventati nel mondo, usciti come da un grosso buco nero che li ha violentemente travolti nel proprio flusso gravitazionale, risucchiati da un gorgo e provvidenzialmente salvati da chi, in quel gorgo, si è buttato con loro, ora finalmente trovano, nell’atmosfera nitida e pulita del teatro, un posto; proprio loro, che vengono da non luoghi, che hanno alle spalle una non storia, sprofondati nell’oblio della non identità, intimamente offesi dal rifiuto di una società che ha voltato lo sguardo altrove per non incrociare il loro, così vuoto e paradossalmente colmo di tutto; sulla scena di Lenz appaiono come tanti piccoli semi da curare, da seguire, per vederne spuntare un giorno un piccolo germoglio; la loro prima nascita non ha importanza; il senso è tutto qui, in una scena che li abilita ad essere, e straordinariamente anche ad essere “altro da sé”; due giovani, due innamorati, tutto quello che la vita non ha dato loro il permesso di essere; tutta la strada mai percorsa perché imprigionati in un labirinto infernale e con un fardello troppo pesante per consentire un cammino, comincia qui, sulle assi del palcoscenico, sugli zerbini verdi che diventano la guida al cammino. Una sola domanda finale per loro, ma forse, soprattutto per noi: “ E’ dunque così lunga la via?” da questa prospettiva pare di sì; è lunga, tortuosa, irta di difficoltà, di muri da abbattere…ma ha una sua bellezza.

Giusy Ripoli.

Un processo di emancipazione

Lenz Rifrazioni. Rivoluzione e ritorno alla vita attraverso la patologia psichica

Leonce und Lena di Lenz Rifrazioni non è uno spettacolo per chi si reca a teatro per vivere un’esperienza estetica; non è una performance che mette a proprio agio lo spettatore; da alcuni punti di vista, non può neanche essere definito uno spettacolo teatrale nel senso convenzionale del termine. Ma Leonce und Lena è un’esperienza che può dare e dire molto.

Lenz Rifrazioni è una compagnia di Parma che collabora con l’Ausl da otto anni portando avanti un intenso lavoro teatrale con finalità riabilitative insieme a un gruppo di ex lungodegenti psichiatrici. Francesco Pititto, regista e drammaturgo, e Maria Federica Maestri guidano i loro anziani attori in un lento processo di riappropriazione: si lavora sulle possibilità dimenticate del corpo, della voce, della relazione (come illustra il video di Pititto, Apoplexia cerebri), su tutte quelle azioni assolutamente banali per un uomo sano ma impensabili per delle persone che sono state private del loro passato e costrette a (non) vivere in un manicomio.

Lo spettacolo prende le mosse dall’opera di Georg Büchner, facendosi tappa di un percorso più ampio sull’autore che ha visto la messa in scena di Woyzeck e La morte di Danton.
Gli attori, disposti disordinatamente in circolo, sono già presenti in scena nel momento in cui entra lo spettatore: gli uomini portano tute bianche, le donne sacchi di iuta come vestiti; tutti hanno delle parrucche seicentesche. Camminano, parlano, cercano gli sguardi di approvazione dei loro maestri presenti in sala.
Quando si spengono le luci inizia lo spettacolo: aiutati da tre suggeritori (tre attori abili che collaborano con la compagnia), i personaggi si animano in modo scomposto, tra bambole di pezza, animaletti finti e prati di plastica; le voci si fanno pesanti e, a tratti, incomprensibili; la trama si perde in un’eco di parole apparentemente prive di senso.
Lo spettatore capisce immediatamente che bisogna cambiare categorie di pensiero, abbandonare la pretesa di guardare passivamente uno spettacolo teatrale e aprirsi a qualcosa di diverso. Egli comprende che, in realtà, si stanno ribaltando i ruoli: non ci sono degli attori che recitano per un pubblico, è il pubblico stesso che, con loro, vive una catarsi rovesciata in cui non c’è purificazione, ma una discesa verso il basso, verso l’inferno che ha generato le persone che si stanno esprimendo sulla scena. Essi parlano, si muovono, comunicano, (ri) scoprendo la possibilità di saperlo fare. Cadono le convenzioni teatrali e, con loro, le inibizioni che una relazione del genere può provocare, risorge un teatro originale che torna a essere puro ed essenziale strumento di scambio.

Una performance come quella appena descritta può diventare spiacevole, è nella sua natura: si tratta di persone anziane malate che, attraverso il teatro, si stanno riabituando alla vita, in modo ovviamente impacciato.
Se lo spettatore sarà in grado di abbandonare ogni spicciolo psicologismo e paternalismo, se sarà capace di andare oltre la tenerezza pietosa che il quadro può ispirare e se deciderà di sottoscrivere un patto con questi attori, allora parteciperà, silenziosamente, a un piccolo ma rivoluzionario processo di emancipazione.

Nicoletta Lupia

mercoledì 12 marzo 2008

La posta di Antigone e Iago

Sempre 'altri', Antigone e Iago intraprendono una lotta contro il senso comune, rivoluzionari e reazionari, vittime e carnefici.
Questa rubrica dà spazio alle alterità e alle dissonanze, raccoglie le polemiche e le critiche di tante Antigone e di altrettanti Iago, a dimostrazione del fatto che esistono intelligenze agili e mordaci che, esponendosi in prima persona, coraggiose, sollevano domande e problemi.
Antigone e Iago non mentono, ma, a volte, simulano. Quindi perdonate eventuali pseudonimi considerato che, dietro di essi, c'è sempre un pensiero vivo.
A tale pensiero vivo qui si dà voce e poco importa come si chiami, purché esso sia, cinico o sentimentale, melodrammatico o ironico, avanguardista o reazionario, sempre 'altro'.

venerdì 7 marzo 2008

Vent'anni di Scenario

INTERVISTA A CRISTINA VALENTI
Cristina Valenti, direttore artistico dell’Associazione Scenario, racconta la storia e i “segreti” di un premio nato nel 1987 per dare spazio alle nuove generazioni e a progetti innovativi, una fucina di sperimentazione di tematiche e linguaggi scenici

Il Premio Scenario ha compiuto da poco vent’anni: dai primi albori ad oggi, cos’è cambiato?
Il Premio Scenario è nato in anni molto diversi da quelli attuali. Adesso è difficile pensare ad anni in cui l’interesse giovanile per il teatro era diventato assai poco attuale. Piuttosto, i giovani si esprimevano attraverso la musica, la videoarte. I luoghi di aggregazione e creatività giovanile erano i centri sociali, dove si andava soprattutto ad assistere a concerti. Il vastissimo movimento teatrale degli anni Settanta aveva di fatto mutato il panorama della ricerca teatrale, conquistando territori e aprendo spazi; erano appena nati i Centri teatrali e i protagonisti del nuovo teatro stavano consolidando le proprie posizioni anche sul piano della gestione e dell’organizzazione, oltre che della produzione. Inoltre il nuovo teatro stava vivendo la stagione delle “opere” dopo quella della necessità, come è stato detto. I linguaggi appena inventati stavano producendo i primi frutti maturi. La metà degli anni Ottanta va vista sicuramente come un punto di arrivo, sul piano artistico e organizzativo. E liquidare gli anni Ottanta come “buco nero” significa rimuoverne contenuti importanti. Ma, mentre consolidava i suoi assetti istituzionali e artistici, l’ondata generazionale della fine anni Settanta/inizio anni Ottanta continuava a rappresentare pienamente la parabola del nuovo, occupando in qualche modo anche l’orizzonte di attesa e di attenzione (anche da parte della critica militante). Il nuovo teatro aveva finalmente un riconoscimento e una visibilità e non si avvertiva di certo la necessità di un ricambio. Le realtà emergenti erano poche, come detto, e si affacciavano in un territorio già occupato. E – cosa più grave – di recente occupazione. Detto questo, è facile comprendere come il progetto del Premio Scenario sia nato anticipando una necessità assai poco avvertita allora. Non a caso, a promuoverlo è stato Marco Baliani, che già aveva intuito la necessità di molti passaggi fondamentali; dall’animazione al teatro ragazzi, dalla logica “movimentista” dei gruppi alla stabilità dei centri, dall’autoreferenzialità al lavoro sul territorio e alla responsabilità di raccoglierne le esigenze. Proprio questo contenuto si è sedimentato e sintetizzato in una frase, una specie di formula che continuiamo a usare in tutti i bandi del Premio Scenario, e adesso anche in quelli del Premio SCENARIOinfanzia, e alla quale non rinunciamo: laddove si dice (cito a memoria) che “avvertendo la responsabilità di un terreno teatrale, Scenario ha espresso l’impegno a coltivarlo” e l’ha fatto attraverso un progetto concreto e condiviso. Superando uno steccato che allora sembrava ancora più invalicabile di adesso, il teatro ragazzi e il teatro ricerca si sono messi insieme per promuovere i giovani artisti, individuando nel rapporto fra le generazioni il principale germe di vitalità del teatro in generale. Dai 13 soci fondatori dell’Associazione Scenario siamo passati ai 38 attuali e quindi alla presenza di Scenario su tutto il territorio nazionale, cosa che assicura un lavoro di monitoraggio articolato e capillare. Ma i fondamenti e gli obiettivi del lavoro di Scenario non sono mutati. A mutare piuttosto è stato il contesto generale. Oggi i giovani artisti non vanno certo incentivati a individuare nel teatro un possibile ambito di espressione e creatività. Le ultime due edizioni del Premio hanno raccolto fra i 300 e i 400 progetti. Piuttosto si tratta, oggi, di rispondere a una domanda molto forte da parte delle giovani generazioni di artisti; domanda di attenzione, confronto e visibilità. E in questo senso Scenario si trova certamente a svolgere anche un ruolo di supplenza, in una situazione di sostanziale e generale chiusura, per non dire latitanza, sul piano istituzionale. Un ruolo di incentivo continua ad averlo, a mio parere, per quanto riguarda SCENARIOinfanzia. È opinione generale e condivisa che il Teatro Ragazzi in Italia vive un problema di mancato ricambio generazionale, con tutto ciò che ne consegue. Di nuovo, Scenario ha voluto intervenire in questo dibattito con un gesto concreto: un nuovo premio destinato a produrre nuovi linguaggi, nuovi immaginari, nuovi modi di interpretare il rapporto col referente bambino e adolescente, stimolando giovani artisti a misurarsi su un terreno che forse non avrebbero individuato altrimenti. E i risultati ci hanno dato sicuramente ragione: almeno da questo punto di vista la nostra scommessa è stata vincente.

Cosa spinge secondo lei i giovani a partecipare a Scenario?
Negli anni, la partecipazione a Scenario si è caricata di nuove attese. Se la motivazione del confronto e dell’incontro resta forte, oggi il Premio è visto sicuramente anche come una sorta di “trampolino di lancio”. Soprattutto da quando Scenario ha premiato o ha contribuito a far conoscere alcuni degli artisti rivelatisi come più rappresentativi del giovane teatro attuale. Emma Dante in primo luogo (che ha vinto l’edizione 2001), ma anche Davide Enia, Scena Verticale, Anna Redi, Le Ariette, Francesca Proia, Gianluigi Gherzi, Habillé d’Eau, M’Arte, Berardi-Colella, e abbiamo appena visto nell’Anna Karenina di Nekrosius, il conte Vrònskij interpretato dal bravissimo Paolo Mazzarelli, che nel 2001 ha avuto una segnalazione speciale per il suo progetto dedicato a Pasolini, riconoscimento che sono sicura di poter interpretare, retrospettivamente, come fondamentale per i suoi passi successivi, fino a Nekrosius.
Personalmente, continuo a pensare, però, che la partecipazione a Scenario è importante soprattutto per il percorso che offre, al di là dei risultati. Un percorso unico, se ci si pensa: fatto di incontri importanti per un giovane artista: con operatori, registi, critici, studiosi impegnati solo ed esclusivamente a comprendere le intenzioni e le potenzialità contenute in un progetto teatrale in nuce, che cercano, con tutta la delicatezza e il rispetto del caso (cosa a cui teniamo molto), di dare suggerimenti, di correggerne certi orientamenti. Molto spesso si contribuisce a rivelare il progetto a se stesso, iniettando fiducia e invitando al rischio. Rischio che noi per primi, in molti casi, decidiamo di assumerci. A volte i risultati di tutto questo arrivano dopo Scenario. Ed è normale se ci si pensa. In genere gli artisti ce lo riconoscono. Il mondo teatrale invece non manca di sottolineare che il tal artista non è stato premiato a Scenario! Senza sapere, magari, che quando si è presentato a Scenario non era ancora l’artista che si è rivelato in seguito. E che magari proprio Scenario, pur non premiandolo, ha contribuito agli esiti successivi… Ma non vorrei cadere nell’autoincensamento…

Come si fa a capire dallo studio scenico di venti minuti come sarà lo spettacolo? Quali criteri adottano l’osservatorio e la giuria nel valutare?
Non ci sono criteri precisi e “formalizzati”. Ci sono una serie di linee di orientamento. Va detto che, a differenza di quello che si potrebbe pensare, Scenario non cerca il nuovo per il nuovo, né il giovane a tutti i costi (anche se un limite di età è indicato, ovviamente, ed è i 35 anni). L’invenzione personale dell’artista può non essere un’invenzione in assoluto, ma può essere il modo assolutamente personale di interpretare la contemporaneità o anche la tradizione del teatro. Può essere un talento artistico o drammaturgico o attorico che non deve andare sprecato. Di certo non riteniamo che la vicenda del nuovo vada intesa come una specie di staffetta, di passaggio di testimone fra una stagione artistica e la seguente. Nell’area del nuovo (e nella sua tradizione ormai cinquantennale) convivono diverse generazioni e diversi linguaggi e forme artistiche. E guai se non fosse così. L’importante è che quell’area e quella tradizione continui ad arricchirsi di nuove risorse. Ecco, noi siamo attenti alle risorse e cerchiamo, per il poco che ci è possibile, di arginare il rischio dello spreco e della disattenzione verso i giovani artisti, un rischio sempre presente in un sistema teatrale che, come un po’ tutto in questo Paese, è regolato da logiche che non premiano il merito ma piuttosto le posizioni acquisite… non importa come…
Ma come contribuire al processo artistico, poiché Scenario prima di essere un premio è un processo? Questo è il vero problema. Per il quale credo che non esistano risposte valide una volta per tutte. Posso portare un esempio. Babilonia Teatri ha partecipato al Premio SCENARIOinfanzia nel 2006. Dopo la presentazione del loro lavoro, a proposito di una soluzione che avevano adottato, ricordo che ci hanno detto: “in realtà noi avremmo voluto fare…”. Ecco, noi abbiamo detto loro “fatelo!”. Scenario è il luogo in cui spingere fino in fondo le proprie intenzioni, senza timori (in quel caso) verso il pubblico degli insegnanti o dei genitori o quant’altro! Ci troviamo spesso a dire questa cosa: seguite fino in fondo la vostra idea! Beh, Babilonia Teatri è il vincitore del Premio Scenario 2007 con Made in Italy, uno dei risultati più alti di Scenario, a mio parere. Ma tutta la Generazione Scenario 2007, presente all’interno del progetto Interscenario, potrei dire che rappresenta questo orientamento: sia Pathosformel con La timidezza delle ossa sia Teatri alchemici con Desideranza hanno portato avanti fino in fondo le loro visioni e le loro direzioni di lavoro, assai diverse da uno spettacolo all’altro, a dimostrazione del fatto che Scenario non cerca nulla, e forse proprio per questo trova…

Quali sono le tematiche che vengono affrontate più spesso? Qual è l’età media dei partecipanti e da quali zone d’Italia provengono?
A ogni edizione del premio si affacciano tematiche nuove, legate alla sensibilità dei giovani rispetto a quanto avviene nel mondo che li circonda. In termini molto generali potrei dire che i giovani dimostrano di cercare anche attraverso il teatro gli strumenti per leggere un mondo che sempre più appare virtualmente a portata di mano, ma di fatto precluso alla loro comprensione e alla loro possibilità di intervenirvi realmente. Ma non è detto che i temi maggiormente attuali appartengano ai progetti destinati ad arrivare in finale. La difficoltà di coniugare teatro e presente nasce con la crisi del dramma moderno e riguarda tutta la sperimentazione dell’epoca postdrammatica! E Scenario non può certo fare eccezione! Ma quello che mi preme dire soprattutto è che Scenario ci fa avvicinare una popolazione giovanile del tutto estranea a quella che ci viene rappresentata dai setting televisivi e mediatici. Giovani impegnati nei territori, nelle scuole e nel volontariato, che nel teatro sperimentano personali modi di aggregazione, partecipazione, conoscenza, oltre che di espressione e ricerca artistica.
Per quanto riguarda età e provenienza, Scenario riflette il Paese anche da questo punto di vista: i cosiddetti “giovani” oggi hanno 30 anni, e il sud è più povero del nord (almeno numericamente).

Come si promuovono gli spettacoli dopo il Premio?
Abbiamo sempre detto che Scenario non si occupa di promuovere né di distribuire gli spettacoli dopo il Premio. Dopo il Premio ci occupiamo di quello successivo. Ma Scenario è formato da 38 soci, imprese teatrali dell’ambito dell’innovazione, e sta ai soci, nella piena autonomia delle rispettive linee di programmazione, prestare attenzione agli spettacoli usciti da Scenario. Ma dire questo significa semplicemente richiamare l’impegno dei soci verso il progetto che condividono. Più importante sarebbe parlare del teatro italiano nel suo complesso, al quale Scenario presenta gli spettacoli vincitori e segnalati dopo ogni edizione del Premio, organizzandone le prime rappresentazioni in piazze significative d’Italia: investendo moltissimo (per le nostre scarsissime risorse) in promozione e ufficio stampa, con risultati assai scarsi rispetto alla presenza della critica e degli operatori extra-scenario (fatte le dovute eccezioni, ovviamente). Eppure di Scenario tutti parlano e a Scenario sempre più si riconosce un ruolo o si chiede di avere un ruolo. Bè, io credo che, da parte nostra, il nostro ruolo lo svolgiamo in fondo…
Alessandra Consonni

giovedì 6 marzo 2008

Poveri diavoli e azionisti inconsapevoli

LEBEN, Teatro delle Albe

Fasulli naturalisti, precettori corrotti e leziose fanciulle in un affresco satirico sulla quotidiana vendita delle anime

Un portiere in livrea che sbandiera e distribuisce casualmente fogli bianchi nella penombra della sala. Un pubblico titubante davanti al gesto. Un progressivo alzarsi di braccia per ricevere il misterioso comunicato. Si apre così lo spettacolo che le Albe portano in scena all’Arena del Sole di Bologna. Una storia sul Male che, con una doppia trama, parla anche della sua costante presenza nella Storia. Che ci troviamo in un castello ottocentesco, al cospetto di fasulli medici naturalisti, di precettori corrotti e di leziose fanciulle, oppure in un’attualissima convention aziendale della Leben, di fronte a una Ermanna Montanari, relatrice crudele e dispotica, il risultato non cambia: il Male è sempre presente. Quando i medici naturalisti vendono al portiere-diavolo le loro amate, quando la relatrice sul podio decanta i vantaggi economici che derivano dall’aprire un bordello in Thailandia, mostrando ragazze in valigia trascinate da facchini a volto coperto, le distanze temporali svaniscono, e il Male della Storia resta. Ponte tra le situazioni, il diavolo-portiere, figlio di suggestioni shakespeariane. Il coro delle ragazze che si muove al sincrono e canticchia canzonette in voga nel Ventennio appartiene sempre alla città in cui la compagnia presenta il proprio lavoro, richiedendo di volta in volta un approccio differente. Opera “in fieri”per ammissione dello stesso Martinelli, si chiude con una triste verità, quando ci si rende conto che l’ambito foglio è “soltanto”il contratto per comprare azioni della Leben. La cosa più triste resta il balletto di mani per accaparrarsi quanti più titoli possibili.

Giusy Ripoli

Vincent Longuemare

La drammaturgia della luce di Vincent Longuemare

Intervista a Vincent Longuemare, giovane e stimato light designer francese, autore del progetto luci dello spettacolo “Leben” di Marco Martinelli.

Lei ha vinto il Premio Speciale Ubu 2007 per l’illuminotecnica dello spettacolo
“Sterminio” prodotto dal Teatro delle Albe. La motivazione è aver segnato, ormai da anni, con le sue luci gli spettacoli delle Albe con uno spirito da scenografo che integra il lavoro registico. Lighting designer è un termine che racchiude in sé molteplici significati e diverse competenze. Cosa significa per lei oggi essere un lighting designer?

Messe da parte le necessarie conoscenze in campo della fisica, dell’ottica, e della fisiologia della percezione, oltre a una solida e costante ricognizione nelle varie forme di espressioni artistiche, e aggiungendo a queste un regolare aggiornamento sui materiali disponibili, si potrebbe partire da lì per ragionare su cosa sia in fondo un light designer: credo si tratti di praticare un mestiere destinato a recuperare immagini dal mondo e a proporle in modo riconoscibile dando una forma all’ oggetto catturato dalla percezione. È probabile che prima della lingua, prima del nominare, il mondo si sia proposto ad essere guardato: una volta visto, lo si è potuto riconoscere, imparando a nominare, dividendo gli oggetti offerti alla visione. Credo che fare il light designer sia quindi praticare una lingua muta antecedente alla parola: una capacità particolare dell’immagine di attraversare la superficie e penetrare il mistero. Aprire piccoli varchi nel buio.

Come ha avuto origine la sua "passione" per il mondo della luce?“L’origine”, come ha dimostrato molto bene Courbet, è stato l’amore per una giovane attrice, che mi ha portato a scuola di teatro a Bruxelles, per seguirla; ma forse, ancora prima, c’è stata la luce cangiante del cielo sulle coste della Normandia…

Quali sono le personalità che hanno avuto maggior peso nella sua formazione e nel suo percorso professionale?
Sicuramente mi sono orientato verso questo mestiere grazie alle qualità umane del professore di illuminotecnica nella scuola belga “L’INSAS”, dove ho studiato. Era un alcolizzato totale come molti suoi colleghi, che non reggevano il sentimento della vita e cercavano luce e senso; era un membro di questa generazione che inventò il mestiere, che portò luce nel buio dei teatri.
Poi davvero è un fatto di incontri, della fortuna degli incontri con registi, di “matrimoni artistici”. A volte è un attore bravo che ti fa aprire porte sensoriali.
Di sicuro Thierry Salmon è stato maestro di visioni.

Come nasce l'idea di illuminare una scena?
Ciò su cui insisto con i miei studenti è il sentimento: dico loro di sedersi per ore in platea e mettere i loro sensi in ascolto, in osservazione e recuperare il sentimento della scena, quello ricercato dal regista come quello che emerge anche per caso; annotare gli spostamenti e la direzioni degli sguardi, gli accordi e disaccordi.

Ormai lei ha maturato qui in Italia un’esperienza decennale con il Teatro delle Albe, come si è evoluta in questi anni la sua vocazione artistica?
Lavoro ormai da vent’anni con decine di registi e coreografi e ho iniziato a rendermi conto di un terribile qui pro quo, questo andare avanti nel tempo come acquisizione di sapere ed esperienza: iniziano a chiamarti maestro, poi a ingaggiarti per risolvere questioni estetiche spinose. Ma in realtà più si va avanti meno si sa, più si dubita, mentre dall’esterno sono convinti che tu sappia! Invece se non vuoi morire artisticamente troppo presto è bene non sapere, è bene dimenticare, è bene non cercare di conquistare posizione e parlare da quel pulpito, è bene scegliere l’intuizione contro il sapere.
Fortunatamente è un mestiere in cui a ogni allestimento si deve, o meglio si dovrebbe ripartire da zero, più si va avanti, più è importante la dimensione del gioco, il rischio del gioco e non il presunto sapere, se no, finisce che fai sempre le stesse luci, guadagni in sicurezza economica forse, ma sei morto artisticamente.
É un rischio; e a volte capita di sbagliare soprattutto se perdi il contatto con il livello simbolico proprio. Ma è una cosa buona: quelli che ti condannano a morte non dovrai più frequentarli! Lo spazio si fa quindi più grande e pulito.

“Leben” è una commedia satirica e surreale, nella quale l’ironia si affianca a significati profondi. Come è stato possibile per lei creare un progetto luci che contribuisse a rendere quest’atmosfera?
Credo che sia stato pubblicato, insieme al testo, un mio intervento in merito al percorso della creazione luci per lo spettacolo “Leben”. Forse lì si trovano maggiori informazioni rispetto a quello che posso dire o ricordare adesso. Ciò che mi ricordo è stata l’estrema difficoltà nella realizzazione delle luci, particolarmente in merito alle “bande temporali” presenti, definite così da Marco Martinelli: davvero non capivo il suo discorso, non comprendevo. Ho dovuto quindi applicare questo metodo: in primo luogo dividere per riconoscere e nominare; in secondo luogo riunire per far comprendere. È stato un percorso lungo e analitico, razionale, così che a volte, nel rivedere le luci, ne percepisco l’assenza di sentimento!
Praticamente ho dovuto esercitare una dissezione dei materiali teatrali che venivano creati, spesso di notte, e poi ricucire il tutto insieme: il risultato è stato quello di creare due progetti luci indipendenti, due stili e materiali diversi ma con elementi di contatto e lentamente assimilarli l’un l’altro fino a fonderli.
Faticoso!!!!

Quanto è importante, secondo lei, che in Italia il sistema universitario si faccia carico, come avviene già da numerosi anni negli altri paesi europei, della formazione dei futuri light designer?

Sinceramente vedendo gli stagisti che arrivano dall’università o da altre rinomate scuole di formazione non mi risulta esse siano adatte alle necessità del mestiere del teatro. E la situazione peggiora velocemente dalla recente “virtualizzazione” della formazione: molte di queste realtà dimenticano di considerare la luce come una materia, spesso non danno importanza a imparare a guardare, a vedere, a riconoscere e a nominare ciò che si manifesta all’occhio. La luce, come il teatro, è una lingua di esperienza, difficilmente afferrabile in ambito universitario o scolastico. D’altronde è difficile mantenere un equilibrio costante tra teoria e pratica.

Quali sono secondo lei i requisiti necessari per avvicinarsi a questo mestiere?
Un grande interesse per l’umanità, l’uomo, il piacere di osservarlo, il desiderio di produrre cultura intesa come azione del pensiero in determinate condizioni economiche, sociali, politiche e culturali.
Infine, per la specificità del mestiere ritengo che una delle divisioni possibili del mondo sia tra chi sceglie di apparire e chi decide di starsene nell’ombra: sono funzioni complementari, bisogna solo trovare l’ombra giusta che fa per la tua luce.

Oltre al sapere tecnico, quanto è importante un’adeguata formazione culturale per la sua professione?
È decisiva. La curiosità è fondamentale: non bisogna mai smettere di guardare immagini, pitture, sculture, fumetti, film, camminare per strada con occhi e sensi aperti, studiare l’asse fondamentale tra etica ed estetica, tra società e forme di rappresentazione.

Quale consiglio pensa di poter dare a un giovane che voglia intraprendere la professione del light designer?
Non considerarlo una professione ma una forma possibile di apprendimento.
Un percorso di esperienze ed incontri, di comprensione dell’altro.

Andrea Nao

Lorenzo Donati

Un testimone della Non-scuola

Quale è stato il tuo primo approccio al mondo del teatro?
Ho partecipato alla non-scuola ai tempi del liceo, già nel 1991. Ero curioso di capire, di conoscere il mondo del teatro: questo interesse l’ho avuto sin da piccolo (ho frequentato un laboratorio teatrale anche ai tempi delle scuole elementari). L’incontro con Marco Martinelli è stato tuttavia determinante: l’esperienza della non-scuola era un’attività laboratoriale un po’ corsara e un po’ clandestina, dal momento in cui dava la possibilità di “vivere” la scuola in maniera diversa e con un forte spirito di gruppo. Questo percorso clandestino della scuola creava una forte voglia di frequentare un teatro, per avere un approccio con esso anche dal punto di vista dello spettatore; fu così che iniziai ad assistere ad alcuni spettacoli presso il Teatro Rasi di Ravenna. Ricordo, in questo periodo, almeno due esperienze relative alla non-scuola: l’Orlando innamorato di Boiardo e alcune scene comiche al rallentatore con musiche di sottofondo. Riguardo alla seconda stagione del Teatro Rasi ricordo un Dialogo delle piante, spettacolo incentrato appunto su un dialogo tra il protagonista e alcune piante. In tutto questo mio percorso ha sicuramente avuto un ruolo determinante l’appoggio che ho avuto da parte delle mia famiglia.

Hai avuto modo di partecipare a spettacoli con il Teatro delle Albe?
Io ho partecipato solo alla non-scuola. Per non-scuola si intendono i laboratori organizzati all’interno delle scuole superiori. Da tre anni a questa parte all’interno della non-scuola è nato «Lo spettatore con il taccuino in mano»: si tratta di osservare gli spettacoli e discutere di ciò che si è compreso.

Che cos’è la non-scuola e cosa può rappresentare per un ragazzo?
Rappresenta indubbiamente il furore, la possibilità di esprimersi attraverso il teatro e l’irrequietezza dell’adolescenza. La non-scuola non è propriamente una scuola di teatro, non è un avviamento alla professione per il semplice motivo che il 98% dei ragazzi che vi partecipano non hanno mai fatto teatro né lo faranno mai. Alla non-scuola non si insegnano delle tecniche Gli spettacoli organizzati sono concepiti come un gioco, come eventi unici, nel senso che lo spettacolo dura solo un giorno e non si replica mai.

Come definiresti il fare teatro oggi? Pensi che il teatro possa avere un ruolo nella società di oggi?
Credo che il teatro abbia ancora una forza da preservare e da conservare. Uno dei suoi ambiti è raccontare una società e mettere l’uomo di fronte a se stesso; ma ciò molto spesso risulta essere un’utopia. Una cosa di cui sono profondamente convinto è il carattere minoritario di persone che si riuniscono e producono un pensiero sul mondo. Bisogna tener conto poi della condizione attuale nel dire che il teatro è un nucleo minoritario di persone ha ancora un senso.
Se pensiamo agli anni Settanta il teatro era vissuto da una larga fetta di popolazione, il teatro poteva dire la sua. In un’epoca come la nostra il teatro va visto in una prospettiva di alta responsabilità: da pochi a pochi. Costruire una rete piccola di persone che si rivolgano ad altri pochi; così facendo si finisce per pensare ai molti.


Antonio Guerrera

Dialogando con‭…



Marco Martinelli alla scoperta del Teatro delle Albe


L‭’‬intervista a Marco Martinelli del‭ ‬31‭ ‬gennaio è un tassello che si va ad affiancare non solo allo spettacolo da esso creato,‭ ‬Leben,‭ ‬ma anche al seminario e alla conferenza sostenuti dal Teatro delle Albe.‭ ‬Per un limitato gruppo di persone è stato possibile‭ ‬assistere al seminario sulla non-scuola,‭ ‬durante il quale temi come istinto dionisiaco,‭ ‬conoscenza asinina e improvvisazione sono stati approfonditi nella loro complessità.‭ ‬Per induzione si è giunti fino alla conoscenza del teatro come organo indipendente.‭
Queste nozioni sono imprescindibili dall‭’‬intervista che deve prendere forma poggiando saldamente sui concetti che l‭’‬ hanno preceduta.
Il Teatro delle Albe nasce dalla passione dei suoi fondatori,‭ ‬Ermanna Montanari e Marco Martinelli,‭ ‬i quali hanno compiuto un cammino all‭’‬interno del mondo culturale,‭ ‬per mezzo di un loro particolare lavoro che li rende sempre più conosciuti e ricercati.‭ ‬Il Teatro delle Albe ha al suo interno due realtà differenti e parallele:‭ ‬la non-scuola e la Bottega.‭ ‬La prima consiste‭ ‬in dei laboratori teatrali che vengono proposti ad alcune scuole medie superiori e che hanno l‭’‬intento di rendere consapevoli i giovani adolescenti coinvolti,‭ ‬della loro teatralità innata.‭ ‬La finalità di questa collaborazione è uno spettacolo a coronamento di una crescita condivisa tanto dalle guide quanto dagli allievi.‭ ‬La Bottega invece è una compagnia gestita da Marco Martinelli e Ermanna Montanari che propone periodicamente varie messe in scena.‭
Marco Martinelli è sia il principale referente della non-scuola sia il drammaturgo e il regista della Bottega delle Albe.‭ ‬Egli,‭ ‬nel parlare della non-scuola,‭ ‬ha fatto emergere una separazione implicita da Ermanna Montanari,‭ ‬che si inserisce meglio all‭’‬interno della Bottega delle Albe.‭

Come è strutturata la Bottega delle Albe sul piano organizzativo‭?

Il direttore organizzativo del Teatro delle Albe è Marcella Nonni.‭ ‬È lei che gestisce la parte burocratica e quindi ne conosce ogni dettaglio.‭ ‬Il Teatro delle Albe è una cooperativa di circa una quarantina di persone,‭ ‬ognuno considerabile in quanto socio.‭ ‬Abbiamo tutti lo stesso stipendio,‭ ‬indipendentemente dal ruolo che abbiamo nella Bottega:‭ ‬questa è una legge interna al nostro gruppo,‭ ‬siamo tutti sullo stesso livello.‭
Il teatro riceve annualmente dei finanziamenti statali e gode anche della collaborazione,‭ ‬ormai ventennale,‭ ‬con il comune di Ravenna,‭ ‬il quale ci permette di gestire il teatro Rasi

Com’è vissuto il rapporto tra Ermanna Montanari,‭ ‬in quanto attrice,‭ ‬e Marco Martinelli nelle vesti di drammaturgo e regista,‭ ‬ovvero come si scontrano/incontrano la ricerca soggettiva di un ruolo e la creazione di testo e spettacolo‭?

Io e Ermanna siamo due creatori e i nostri mondi vengono costruiti insieme,‭ ‬ognuno con la sua specificità.‭ ‬Abbiamo ossessioni che si richiamano continuamente e che si ritrovano nel lavoro finito.‭ ‬Niente viene definito all‭’‬inizio della nostra creazione,‭ ‬neanche i ruoli:‭ ‬tutto nasce da un gioco alchemico.‭ ‬Questo vale per ogni attore:‭ ‬la propria parte emerge dal lavoro che viene fatto insieme.‭ ‬Ermanna dice sempre che l‭’‬io è come un condominio,‭ ‬abitato da voci e maschere che premono per uscire e,‭ ‬se queste sono in conflitto,‭ ‬si accorderanno in un piano superiore di crescita interiore.

Ci ha affascinato molto la vostra cultura ampia ed eclettica.‭ ‬Ci puoi raccontare la vostra formazione‭?

Il nostro percorso,‭ ‬mio e di Ermanna,‭ ‬è cominciato con il corso di Lettere Moderne nella Facoltà di Lettere e Filosofia di Bologna.‭ ‬Abbiamo studiato gli antichi e tutta la cultura europea,‭ ‬perché studiare l‭’‬antico,‭ ‬chi ci ha preceduto,‭ ‬è come studiare noi stessi.‭ ‬Per noi i libri hanno sempre qualcosa da dirci.‭ ‬Ogni volume di qualsiasi biblioteca pulsa di vita.‭
Inoltre penso che il teatro non possa‭ ‬prescindere dagli altri linguaggi artistici.‭ ‬Esso ha una natura di per sé filosofica e la cultura che vi sta alla base non può essere un‭’‬accumulazione di dati.‭ ‬La continuità dei nostri studi e interessi ci ha portato ad approfondire in questo momento Rosvita,‭ ‬una delle prime scrittrici di teatro che‭ ‬traduceva Terenzio.‭ ‬Per noi lei è una delle tante situazioni in cui l‭’‬antico riemerge nel contemporaneo.‭ ‬E questo è un esempio del nostro modus operandi.

Riguardo ora il vostro ultimo spettacolo,‭ ‬Leben,‭ ‬sappiamo che ha debuttato con un altro titolo che era‭ ‬Scherzo,‭ ‬satira,‭ ‬ironia e significato profondo.‭ ‬Per quale motivo il titolo è stato modificato e quale è stato il processo che ha portato a tale cambiamento‭?


Scherzo,‭ ‬satira e ironia e significato profondo è stato preparato insieme a Sterminio,‭ ‬spettacoli profondamente uniti tra loro.‭ ‬Lavoravamo con lo stesso gruppo di attori,‭ ‬contemporaneamente a entrambe le messe in scena.‭ ‬È stato un periodo molto stressante,‭ ‬durante il quale il mio editore mi ha richiesto un titolo per la pubblicazione del testo del primo spettacolo.‭
Scherzo,‭ ‬satira e ironia e significato profondo era un riferimento in onore all‭’‬ opera originale di Grabbe,‭ ‬al quale ci siamo ispirati per la trama ottocentesca,‭ ‬moltiplicando però gli elementi descritti.‭ ‬Infatti nel dramma c‭’‬era un solo naturalista e una sola fidanzata,‭ ‬mentre con me sono diventati due naturalisti e due fidanzate.‭ ‬Anche il monologo di Mordax è stato appositamente creato per il nostro spettacolo.‭ ( ‬n.d.r.‭ ‬Mordax è un personaggio del testo di Grabbe che è stato esportato nello spettacolo‭ ‬teatrale nei panni del diavolo e al quale è stato creato un intero dialogo‭)
Subito dopo la pubblicazione,‭ ‬quando il nostro studio era avanzato,‭ ‬sentivo l‭’‬esigenza di un titolo che rispecchiasse maggiormente il nostro lavoro,‭ ‬che ormai non era più una riscrittura di Grabbe ma una produzione divenuta autonoma.‭
Così abbiamo avuto l‭’‬esigenza di cambiarlo con Leben che è un titolo incisivo.‭ ‬Anche a livello pubblicitario è più d‭’‬impatto e soprattutto rispecchia maggiormente la nostra ricerca.‭

Parlando della non-scuola,‭ ‬come viene affrontato il problema della comunicazione,‭ ‬tanto linguistica,‭ ‬quanto sociale,‭ ‬a Chicago,‭ ‬in Kenya e a Scampia‭ ?

Per noi,‭ ‬non esistono differenti lingue o problemi sociali.‭ ‬Tutti hanno le stesse difficoltà indipendentemente‭ ‬dal luogo in cui vivono.‭ ‬Le regole di base della nostra non-scuola sono contenute nel Noboalfabeto,‭ ‬un non-manuale costruito con un andamento poetico‭; ‬queste regole ci permettono di impostare il lavoro iniziale con ogni gruppo di ragazzi.‭ ‬Da qui inizia il‭ ‬nostro lavoro insieme.‭ ‬Per questo la comunicazione non è un problema.‭ ‬Inoltre noi assorbiamo le abitudini di coloro con cui veniamo in contatto e attraverso il loro linguaggio impariamo e comunichiamo da e con‭ ‬loro,‭ ‬nel medesimo momento.


Valeria Bernini e Elena Bruni

Un'illustrazione banale del male

LEBEN, Teatro delle Albe

Tra ottocento e giorni nostri, lo spettacolo delle Albe non convince, giocando tutto sull’esteriorità della visualizzazione.

Un omino con la giacca rossa si aggira tra gli spettatori distribuendo un foglietto ai signori che attendono l’inizio dello spettacolo. Sala buia: tante ragazzine in camicetta bianca si seggono in platea accanto agli spettatori.
Sul foglietto (ormai aereoplanino) la rivelazione: siamo tutti azionisti della “Leben” (in tedesco, “vita”), azienda che produce ragazze in valigia: sesso portatile. Azienda diretta dalla sig.ra Condolcezza, spaventosa quasi quanto il personaggio reale che evoca.
Poi spazio e tempo si sdoppiano. E ricompare l’omino con la giacca rossa: è un giovane diavolo (ha solo seicento anni) che, catapultato nell’Ottocento, rischia l’assideramento.
“In che tempo crediamo di vivere? In un Ottocento da cartolina o nelle festose visioni da incubo dell’azionariato del male di inizio millennio?” si chiedono Marco Martinelli e Ermanna Montanari. Non avendo mai avuto un dubbio di questo tipo, l’oscillare dello spettacolo tra i due contesti temporali rimane inspiegabile.
Grazie al diavolo (l’omino con la giacca rossa), resisto agli assalti della distrazione: vederlo saltare convulsamente e ascoltarlo sbraitare le sue nevrosi di demone che si ribella alla banalizzazione del Male, restituisce un certo appeal allo spettacolo. Alla presenza di questo personaggio sono legate anche le soluzioni sceniche più convincenti, quelle dotate di maggiore aggressività visiva.

Se dovessi trovare un aggettivo che sia sunto di questa messa in scena sceglierei visionaria: la vacuità del termine è adeguata a rivelare un’abitudine decorativa che si concentra sulla visualizzazione ma non sulla visione.
Molto curato. Molto suggestivo. Ma disinnescato.

Serena Facioni

Maestri, guide e pedagogie 'alternative'

Una riflessione sul fascino forviante dei maestri a partire dall’esperienza della non-scuola descritta da Marco Martinelli, tra sfumature di senso e scarti semantici.

G: GUIDE.
Non ci sono padri, non ci sono maestri nella non-scuola. Solo guide che conducono gli adolescenti verso lo spettacolo, che favoriscono il gioco. Chi sono le guide nella non-scuola allora? Possono essere registi, possono non esserlo. Quello che li distingue è il loro “stare in mezzo”, non come acqua stagnante, bensì a dissolvere le superfici apparenti, tra gli adolescenti e la Tradizione.

L’incipit scelto è tratto dal “Noboalfabeto” stilato per la non-scuola di Marco Martinelli.
La scelta della parola “guida” puntualizza uno scarto che sembra più un cavillo che una reale differenza: lo scarto esistente tra una “guida” e un “maestro”.
Nel più classico strumento per la navigazione marittima, la bussola, l’indicazione dei quattro punti cardinali è sovrapposta al disegno della rosa dei venti. Al vento indicato come principale, al vento guida, è stato attribuito il nome di Maestrale: vento maestro. L’esempio, anche se estraneo al contesto teatrale, rivela come l’uso dei due vocaboli sia non strettamente sinonimico, ma intuitivamente sovrapponibile a livello semantico.
Descrivere il proprio ruolo attraverso un’impercettibile differenza di senso non estromette con sufficiente convinzione la relazione di docenza–discenza. Favorire, guidare il gioco: anche se l’insegnamento è esperito e non impartito, non se ne elimina la sua intenzione pedagogica.
Ancora dal “Noboalfabeto”:

B: BUGIA. L’etimologia ci rivela la presenza del male nella parola bugia: dall’antico provenzale bauzìa al franco bausì, ovvero “malvagità”, “male radicale”. Ma nell’etimo del suo più significativo sinonimo, rappresentato dalla parola menzogna, c’è l’eco del verbo latino mentiri, “immaginare”, poi “fingere”, da mens mentis, mente […].

Da un altro alfabeto:
B: BUGGERARE. Verbo derivante dal termine Buggero, nome col quale si indicavano gli appartenenti alla setta eretica medievale dei bogomili , oggi usato per dire “imbrogliare”, “raggirare”.
Nelle sfumature di senso di questo vocabolo è rintracciabile una certa dose di furberia, forse non proprio estranea alla volontà di camuffare un’inclinazione pedagogica attraverso concetti accattivanti come “non-scuola”, “improvvisazione”, “gioco”, “marionetta” (tutti rigorosamente presenti all’appello nell’alfabeto martinelliano).

Circuitare i testi della Tradizione attraverso la ludicità innata in ogni essere umano.
Non preoccuparsi degli stili e delle poetiche.
Liberare il fuoco della creazione per rendere un adolescente coautore e protagonista di un percorso.
Far esplodere quell’energia immaginifica, irriverente e iconoclasta che gli è propria.

Questi postulati, dotati certamente di fascino, sono però consumati dall’uso che ne è stato fatto per ribadire a tutti i costi la propria alterità ottenendo, al contrario, un effetto normalizzante. Così, ciò che si vuole eversivo diventa stereotipo e ciò che si vuole originale suona ingenuo. E questa, è un’ingenuità che viene tramandata alimentando un repertorio di luoghi comuni.
Esempio.
Marco Martinelli è stato il primo protagonista di una serie di incontri, organizzati nei laboratori DMS, dedicati all’annosa questione della formazione dell’attore. La conferenza è stata la conclusione del seminario teorico tenutosi nei giorni precedenti: l’esigua platea era quindi composta in maggioranza dai partecipanti. Durante il consueto spazio riservato alle osservazioni o alle domande degli ascoltatori, uno dei “seminaristi” alza la mano: “Volevo dire che, sì insomma… l’esperienza con la non-scuola è stata molto importante per il mio percorso e mi ha fatto conoscere tante persone che condividono con me delle scelte diverse (?). Perché sì insomma… è una questione di sensibilità (??)… cioè, di una sensibilità diversa (???)… altra.”
Silenzio in sala. L’intervento è stato fondamentale per decidere la conclusione dell’incontro.
Speriamo che non tutti gli allievi siano lo specchio dei difetti del maestro.
Per definire meglio il “martinellismo”, si può raccontare un ulteriore aneddoto (una “martinellinata”). Durante l’ultimo giorno del medesimo seminario, Marco Martinelli, ha invitato i partecipanti a portare del vino per poi coinvolgerli in un esercizio teso a recuperare la teatralità innata e spensierata che ognuno di noi, in quanto triste adulto, ha perso con l’abbandono dell’adolescenza.
Disposti in cerchio, si comincia intonando un testo comune. Poi si battono mani e piedi seguendo un ritmo uniforme, mentre si ripetono gesti e intonazioni vocali di colui che, posto al centro, fa da corifeo a questo gruppo che si è sorprendentemente, improvvisamente e meravigliosamente riscoperto coro.

Dal mio alfabeto:
V: VINO. Era evidentemente buono.
Bando all’ironia molesta.
La relazione docente–discente ha una natura privata ed elettiva. E non è positiva o negativa in sé, piuttosto costruisce la sua connotazione attraverso la “fertilità” dell’allievo e dell’insegnante (o guida, o maestro).
Forse è eccessivamente categorico continuare a sostenere che il teatro non si possa insegnare. L’ostinata ritrosia riservata al concetto di Insegnamento è un’obsolescenza ideologica legata a un pensiero pseudo–libertario vecchio di trent’anni.
Nella parola “insegnamento” si comprimono abitualmente significati legati alla costrizione, all’accademismo, a una pedanteria mortificante. Così l’insegnante assume le fattezze anacronistiche del precettore, dell’istitutore.
Quello esistente tra Maestro (o Guida) e Allievo, non è un legame imposto da ruoli istituzionali socialmente riconosciuti. È una “relazione clandestina” generata da un incontro casuale.

Serena Facioni

Tra asinelli, marionette e cori improvvisati

LE ALBE RACCONTANO LA NON-SCUOLA

Dal 28 gennaio al 1 febbraio, presso i Laboratori DMS, il Teatro delle Albe ha regalato ad alcuni studenti universitari un seminario sulla speciale e decennale attività della non-scuola.


28 GENNAIO

Siamo radunati nel teatro dei laboratori DMS.
Lorenzo Donati, testimone fisico della non-scuola, ex allievo diventato oggi guida del laboratorio “Lo spettatore con il taccuino in mano”, comincia a delineare quelle che sono state le linee teoriche da cui è partita l’attività nel 1991 su iniziativa di Marco Martinelli e Maurizio Lupinelli. “La non-scuola, allora, non si chiamava così” comincia Martinelli, ricomponendo i tasselli della sua esperienza. Nel 1983 insieme a Ermanna Montanari, Luigi Dadina e Marcella Nonni, fonda il Teatro delle Albe, compagnia che sceglierà di impostare il proprio percorso teatrale sul connubio fra tradizione e innovazione. Martinelli oltre a essere il regista è anche l’autore dei testi che vengono scritti o ex-novo o riadattando i classici, ispirandosi agli antichi e al tempo presente, ma sempre pensando le storie per gli attori che diventano veri e propri co-autori degli spettacoli. Dopo circa otto anni di attività a Ravenna, il Comune assegna alla compagnia la gestione dei due teatri della città, il Rasi e l’Alighieri. Il gruppo farà del primo il cantiere del nuovo e del secondo la fucina della tradizione, al fine di creare non un teatro stabile identico agli altri presenti sul territorio nazionale, ma un teatro “corsaro”, emblema di una pratica di “coltura” teatrale, che ha uno dei suoi punti di forza nella non-scuola.
L’attività dei laboratori all’interno delle scuole medie secondarie non ha finalità prestabilite e non consiste nell’insegnamento (perché il teatro non può essere insegnato secondo le Albe), come sottolinea il nome che le è stato attribuito: è un gioco condiviso, nel senso più teatrale del termine.
Alla domanda: “Perché avete scelto proprio gli adolescenti come punto di riferimento?”, Marco ed Ermanna hanno risposto che in questa età i ragazzi sono come “magma in movimento… possono essere tutto non essendo ancora ingessati come gli adulti. Possono e devono sperimentare prima di capire cosa saranno.” Martinelli parla non di "mettere in scena”, ma di “mettere in vita” i testi antichi: resuscitare Aristofane, non recitarlo. Si parte con il fare a pezzi il testo: disossare. Dopo aver rubato a Shakespeare, a Sofocle, ad Aristofane lo spunto iniziale, si tenta di costruire, assieme ai ragazzi, un terreno fertile di energie. Non si tratta né di un criterio di fedeltà né di sovversione al testo, bensì di creazione continua. In questo scenario, la guida svolge un ruolo fondamentale, in quanto fa da medium fra il “morto” e il “vivo”, fra il classico teatrale e l’adolescente.
A questo punto ci viene illustrato il Noboalfabeto, che non è un manuale, ma un approccio che la guida, l’adulto, utilizza per entrare in empatia con il ragazzo. “Attraverso lampi, illuminazioni”, spiega Ermanna, è possibile ricostruire le fondamenta della non-scuola “nel segno di Dioniso”, il Dio della turbolenza sessuale, dell’estasi data dal vino e dal suono dei tamburi; un Dio fuori di testa, spudorato, osceno.


30 GENNAIO

“Allora, cosa ne pensate del Noboalfabeto? Anche qualche sensazione di bassa cucina. Qualsiasi cosa!”. Domina il silenzio nel circolo disegnato dalla ventina di sedie disposte sul pavimento nero del teatro, dove sono rannicchiati gli altrettanti studenti iscritti al seminario. Ci si guarda negli occhi e ci si chiede silenziosamente aiuto. Ma la tensione si abbassa immediatamente. È evidente che siamo in un luogo tangenziale all’università, ma non accademico, e che la domanda fatta da Marco Martinelli non è un’interrogazione. In pochi hanno letto il Noboalfabeto, questa sorta di filo rosso che procede dalla A alla Z, spiegando cosa sia la non-scuola e quali siano i suoi principi non dogmatici e le sue finalità sempre in fieri.
Si ricomincia tutti insieme dalla A di Asinità: una sola parola a partire dalla quale, però, si potrebbe spiegare l’intero percorso che il Teatro delle Albe ha intrapreso con i ragazzi. Un percorso che procede in negativo per arrivare a qualcosa di assolutamente unico: la non-scuola, infatti, ha come destinatari dei non-attori, gli adolescenti che, attraverso delle non-tecniche, vengono accompagnati da una guida, l’adulto, lungo un sentiero che “si allarga, si asfalta e si costruisce insieme” e che conduce all’unico e rituale spettacolo finale.
Si leggono poi insieme altre due parole chiave: Marionetta e Improvvisazione, entrambe antipsicologiche (nel senso, spiega Marco, della piccola psicologia omologata e omologante) e antinaturalistiche, volte alla riscoperta di una natura selvatica e originaria dell’essere teatranti, per andare a scovare lo stupore, l’incanto, la sorpresa di se stessi e delle proprie possibilità. È un cammino anarchico che mette la guida al servizio dell’ “adolescente spappolatore”, di questo “re sbilenco” che è in grado, inconsapevolmente, di rievocare Giordano Bruno, Aristofane o Alfred Jarry, come ci spiega Ermanna.
Sul finire dell’incontro le nostre due “guide” ci raccontano del lavoro su I polacchi, tratto dall’Ubu roi di Jarry, della genesi della messa in scena e di quanto sia stata importante la presenza del coro dei Palotini. Nello spettacolo ravennate, infatti, il coro era formato dai ragazzi prima appartenenti alla non-scuola e poi traghettati alla Bottega delle Albe. Il lavoro è stato affrontato anche a Chicago, in Senegal (dove è diventato Ubu bur) e a Scampia (dove si è trasformato in Ubu sotto tiro). Nei primi due casi il coro era composto da ragazzi del luogo e la resa scenica è stata vincolata dalle loro capacità e dalle suggestioni che erano in grado di fornire. Nel caso, invece, di Scampia, Ubu sotto tiro ha rappresentato il frutto di un’attività laboratoriale più lunga e dai connotati molto diversi.
L’incontro si è chiuso con la visione delle miniature elaborate da Ermanna a partire dal montaggio delle incrostazioni e dei disegni dello stesso Jarry con le foto dei vari spettacoli.


31 GENNAIO

Dopo averci illustrato, negli incontri precedenti, le linee teoriche della non-scuola e le sue modalità espressive, cercando più volte di differenziare l’attività svolta all’interno degli istituti scolastici dalla Bottega delle Albe, Marco ed Ermanna decidono di proiettare due video. Il primo mostra un servizio sul progetto “Arrevuoto”, attraverso la ricostruzione dell’ultima fase del lavoro e alcune interviste; il secondo è Che cosa sono le nuvole?, film del 1967 di Pier Paolo Pasolini, in cui prende corpo quell’idea della Marionetta esposta il giorno precedente.
“Arrevuoto” è un progetto teatrale che, nel 2005, ha portato il Teatro delle Albe a misurarsi con il difficile quartiere napoletano di Scampia.
Il gruppo protagonista del lavoro, ci spiega il regista, si presentava come un magma eterogeneo formato da alcuni ragazzi del quartiere stesso, da un gruppo proveniente da un liceo di Napoli e da rom; ma l’evidente lontananza iniziale è stata immediatamente superata dal lavoro collettivo.
Le differenze tra la non-scuola e il laboratorio di cui Marco ci racconta si palesano velocemente: il lavoro condotto con gli adolescenti napoletani terminava con un evento che contava al suo interno un numero indefinito di non-scuolini, mentre a Ravenna i vari gruppi vedevano la presenza di quindici, venti ragazzi al massimo; “Arrevuoto” prevedeva che la rappresentazione venisse replicata, mentre l’esito finale del laboratorio della non-scuola è un unicum; in una circostanza come quella napoletana, la guida doveva essere anche regista (contrariamente al suo ruolo consueto nelle attività non-scolastiche) e doveva esplicitare la poetica che conduce alla realizzazione finale dello spettacolo. Ultima ma fondamentale differenza è che “Arrevuoto è stata una produzione del Teatro Mercadante di Napoli affidata al Teatro delle Albe, il che ha generato un’eco e un’aura di aspettative molto diverse rispetto a quelle che può rappresentare uno spettacolo della non-scuola: alla prima dell’Ubu sotto tiro, infatti, hanno partecipato anche critici e istituzioni importanti, fra cui il Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, e il sindaco di Napoli, Rosa Russo Jervolino, il che, ovviamente, ha conferito tutto un altro valore al lavoro, che è diventato, non solo il frutto di un’attività laboratoriale fine a se stessa, ma anche un momento in cui il Teatro delle Albe si è esposto, ha mostrato i suoi principi di base e il suo modo di giocare teatralmente con i ragazzi.
Semplificando, Marco ed Ermanna affermano che il percorso che porta alla non-scuola e quello che conduce ad “Arrevuoto” sono identici per quel che riguarda il lavoro con gli adolescenti ma diversi nella ricezione del risultato finale.
Questo terzo incontro sarebbe dovuto essere l’ultimo del seminario. Marco, però, non sembra essere soddisfatto e ritiene che sia necessario agire nella pratica ciò che, fino a ora, è stato esposto solo teoricamente. Così si inizia a intonare insieme un’ottava del Boiardo e ci si dà appuntamento all’indomani con la domanda: “Chi porta il vino?”.


1 FEBBRAIO

Il primo febbraio quello che doveva essere un semplice seminario teorico è diventato qualcos’altro: un’esperienza coinvolgente, dissestante e rivoluzionaria.
Risulta molto difficile descrivere ciò che è avvenuto per una persona che ha partecipato al piccolo moto. Si tenterà quindi di farlo con la maggiore oggettività possibile.
Il gruppo appare leggermente più scarno rispetto ai giorni precedenti. Su una panca del teatro DMS hanno trovato posto alcune bottiglie di vino rosso recuperate dagli studenti e portate perché facciano da incentivo-carburante per iniziare: l’idea non è, ovviamente, quella di perdere la lucidità, ma solo di scaldarsi con la maggiore cura possibile per il luogo ospitante.
Un bicchiere si beve prima di cominciare. Tutti insieme, in piedi, si inizia a intonare un testo comune portato da Marco e già sperimentato in altre occasioni. Si battono piedi e mani e si mantiene un ritmo uniforme, mentre si ripetono, il più fedelmente possibile, i gesti e le intonazioni vocali di colui che, al centro del cerchio, fa da corifeo di questo coro improvvisato e sorprendente.
Marco lascia il suo posto e invita chiunque ne abbia voglia, in assoluta libertà, a entrare. Dopo un inevitabile momento di imbarazzo, si comincia.
I movimenti mutano da persona a persona: c’è chi danza, chi salta, chi cammina, chi si accompagna con mani e piedi, chi si butta in ginocchio o a terra, chi ruota su se stesso; ma qualsiasi gesto fatto al centro del cerchio viene ripetuto dal suo perimetro. Anche i più timidi vincono i loro timori e il testo di base si arricchisce di nuove storie improvvisate: entrano in scena il coinquilino mussulmano che non beve vino (e giù il secondo bicchiere!), la cara zia Franca che passeggia sul suolo di Marte, la Luna, in tutte le sue simbologie, la Guerra e la Fortuna, tutti i tipi di paura e di rabbia. Ogni cosa potrebbe rientrare in questo grande calderone umano, perché ogni paradosso, apparentemente privo di senso, acquisirebbe un suo specifico valore. Il gruppo è diventato una cosa sola, un solido folle coro senza musica e senza partiture prestabilite.
Alla fine la stanchezza si accompagna a una particolare ebbrezza (non provocata dal vino bevuto, ma dell’esperienza vissuta insieme): la sensazione di possedere una teatralità innata e spensierata, una teatralità asinina che non va perduta, ma conservata gelosamente, contro qualsiasi gelido ordine mentale e al di là di cosa si voglia fare delle proprie vite.
In quelle due ore ogni ragazzo sente di aver messo qualcosa di sé in condivisione e di essersi appropriato di qualcosa di qualcun altro. In quelle due ore è avvenuto qualcosa di individuale e collettivo, contemporaneamente, qualcosa di coinvolgente, dissestante, rivoluzionario. In quelle due ore è avvenuto qualcosa di praticamente indescrivibile.

Nicoletta Lupia e Maria Pina Sestili