Tra ottocento e giorni nostri, lo spettacolo delle Albe non convince, giocando tutto sull’esteriorità della visualizzazione.
Un omino con la giacca rossa si aggira tra gli spettatori distribuendo un foglietto ai signori che attendono l’inizio dello spettacolo. Sala buia: tante ragazzine in camicetta bianca si seggono in platea accanto agli spettatori.
Sul foglietto (ormai aereoplanino) la rivelazione: siamo tutti azionisti della “Leben” (in tedesco, “vita”), azienda che produce ragazze in valigia: sesso portatile. Azienda diretta dalla sig.ra Condolcezza, spaventosa quasi quanto il personaggio reale che evoca.
Poi spazio e tempo si sdoppiano. E ricompare l’omino con la giacca rossa: è un giovane diavolo (ha solo seicento anni) che, catapultato nell’Ottocento, rischia l’assideramento.
“In che tempo crediamo di vivere? In un Ottocento da cartolina o nelle festose visioni da incubo dell’azionariato del male di inizio millennio?” si chiedono Marco Martinelli e Ermanna Montanari. Non avendo mai avuto un dubbio di questo tipo, l’oscillare dello spettacolo tra i due contesti temporali rimane inspiegabile.
Grazie al diavolo (l’omino con la giacca rossa), resisto agli assalti della distrazione: vederlo saltare convulsamente e ascoltarlo sbraitare le sue nevrosi di demone che si ribella alla banalizzazione del Male, restituisce un certo appeal allo spettacolo. Alla presenza di questo personaggio sono legate anche le soluzioni sceniche più convincenti, quelle dotate di maggiore aggressività visiva.
Se dovessi trovare un aggettivo che sia sunto di questa messa in scena sceglierei visionaria: la vacuità del termine è adeguata a rivelare un’abitudine decorativa che si concentra sulla visualizzazione ma non sulla visione.
Molto curato. Molto suggestivo. Ma disinnescato.
Serena Facioni
Nessun commento:
Posta un commento