L’impossibilità del personaggio a uscire dai rigidi schemi fissati dal tempo, l’impossibilità ormai a far ridere un pubblico pagante, l’incapacità a essere clown o arlecchini. Questo è il primo pensiero che emerge dalla visione di Opera, presentato ai Laboratori DMS per la regia di Vincenzo Schino all’interno di un progetto di Officina Valdoca. La pianta del palcoscenico è disegnata e raccolta dentro una scatola di un tessuto bianco e trasparente, prima parete divisoria con quel pubblico pagante, ma anche divisoria da un mondo che si cerca di smontare pezzo per pezzo come un ingegno tecnico o un discorso grammaticale. Con Opera infatti prosegue la ricerca iniziata da tempo dallo scenografo e regista Schino, il quale indaga la concettualità e la materialità del personaggio sul palcoscenico, attuando una drammaturgia di suoni, luci e musiche. Dopo Operette, performance-spettacoli più densi e strutturati anche nella loro durata, Opera è organizzato su più piani linguistici come un discorso metateatrale, dove ogni gesto, oggetto e suono opera da significante. Lo spettacolo è completamente privo di dialoghi e parole, ma si serve di urla, rumori e pianti. Si apre con l’arrivo di un Arlecchino claudicante che si pone di fronte a un telo rosso che cade immediatamente dopo la sua uscita dal palcoscenico. Rimane solo la scatola di stoffa, perché un’ulteriore parete è caduta e rimangono i quatto lati del cubo tridimensionale a tenere sempre gli spettatori fuori dalla realtà di questi personaggi rotti, stilizzati, ormai impossibilitati a far ridere se stessi o il pubblico per il quale sono stati creati. Pinocchi tristi rimasti ormai forma e veste, dopo che i loro organi si sono lentamente essiccati. L’uomo nudo, che compare in fondo alla scena all’interno di un oblò vuoto, compie gesti ormai da macchina e produce un suono simile a quello prodotto da bambole di plastica. La luce, che in questo spettacolo riesce a scrivere come non mai una partitura di parole, attraversa il corpo dell’attore e lo modula nella sua perfezione. La luce, supporto sintattico, si muove sempre laddove l’oggetto o il corpo hanno perso importanza e vitalità ed è una luce sempre calda e gialla, mai artificiale e fredda. A un certo punto, due damerini di inizio secolo ridono in posa per una fotografia, ma il riso è convulso, isterico, marionettistico, patologico perchè ormai svuotato di una qualsiasi forma di verità. Il clown e l’Arlecchino sono ormai personaggi senza un personaggio, vivono dentro il contenitore vuoto e trasparente di stoffa, in un autismo isolante e auto-isolante, sono una testa vuota che si sbatte fragorosamente contro il muro e il suono arriva agli spettatori con un’esattezza e un fragore inquietanti. L’attore si abbassato a essere oggetto e gli oggetti si sono alzati all’elemento umano. La luce passa dall’uno all’altro componente, il clown che strepita per terra e la marionetta che scende verso terra, come un cencio calato, e si sofferma per un periodo lunghissimo su una maschera fatta roteare artificialmente in un palco ormai vuoto. Rimangono solo la luce e il suono regolare della maschera. Non ci sono più musiche, dopo che lo spettacolo è stato modulato con scelte di brani attinti a una tradizione mitteleuropea come arie di lirica, musica classica e canzoni popolari. La musica riesce a smorzare una messinscena che forse sarebbe risultata troppo patetica ed eleva il tutto a uno strato di poeticità unica. La conclusione invece è solo silenzio, gli attori si offrono al pubblico pagante e si inchinano ancora dietro la parete di stoffa, sono ancora quei personaggi senza personaggio.
Elena Bruni
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