Un impietoso sguardo sull’Italia attuale e una spietata denuncia alle moderne strategie della mafia sono il tema dell’ultimo spettacolo di Emma Dante, “Cani di bancata”. Ne viene fuori un’immagine che supera gli stereotipi folcloristici e regionali, per affondare nell’irriconoscibilità del fenomeno mafioso, radicato nelle istituzioni, capace di controllare la vita economica e politica del Paese.
“…Unn’aviti a nascondere i vostri nomi, tutti voi dovete diventare persone perbene, perché io non esisto […] Credetemi: io non esisto”: con queste parole si avvia alla conclusione l’ultima produzione della regista palermitana Emma Dante, Cani di bancata, interamente costruita sul tema-denuncia della mafia. E’ la sovversione degli ingranaggi, del funzionamento e delle modalità di non-riconoscimento, erette dietro a quella “cosa” che tutti chiamiamo mafia, che la drammaturga siciliana ha tentato di palesare: le cosche – rappresentate dai tre dialetti, siciliano, napoletano e pugliese, con cui si esprimono i personaggi - si sono evolute, hanno modificato il proprio modo d’essere: i tempi di Falcone e Borsellino sono ormai tramontati; non è più necessario far saltare in aria chi oltraggia il nome di questi corrotti, come era successo a Peppino Impastato. I mafiosi, gli stessi che si temeva di incontrare per strada o dal barbiere, oggi sono irriconoscibili; si confondono tra la gente perbene e conquistano l’Italia non più e non solo con le pistole, ma con l’economia e la politica. Non li vediamo, perché diveniamo d’un tratto ciechi come Liborio Paglino, l’inerme ferroviere che scopre troppo tardi qual era il prezzo da pagare per aver chiesto aiuto alla Madre; non li riconosciamo perché, spesso, portano gli stessi nomi di chi è capo di campagne antimafia o di chi investe danaro in attività di denuncia. Eccola, allora, questa Mammasantissima, questa donna o madre-cagna intenta a sfamare i suoi cuccioli, dopo averli educati, dopo aver permesso loro di studiare, chiedendo nient’altro in cambio se non la fedeltà al bacio di sangue con cui è stato stipulato il loro ingresso nella famiglia. Ancora è il rovesciamento del rito, del folclore che permette alla Dante di tessere i fili del suo discorso impegnato: il rito è quello dell’affiliazione, in cui ci si fa il segno della croce nel nome del padre, del figlio, della Madre e dello spirito santo, al quale si unisce la lotta alla scalata gerarchica al potere, le cui regole vengono sconvolte e ribaltate. La mise en scene è una vera orgia di immagini che scandiscono l’importanza di questo rito-banchetto, la cui tavola non è altro che il grande ventre di Mammasantissima, di cui gli affiliati sono chiamati a dividerne il corpo e il sangue, ribaltando il rito eucaristico.
La piece della Dante ha un ritmo incalzante; culmina con un'immagine forte: i cani mafiosi, dopo aver appreso gli insegnamenti della Madre, si masturbano davanti alla visione della cartina di un'Italia capovolta, con la Sicilia al nord e al centro dell’economia e della politica di un paese smembrato. Il rovesciamento ultimo consiste nella negazione, da parte della madre-cagna, di se stessa, per permettere ai figli di mescolarsi alla gente comune, e rendere, in tal modo, la violenza, il male silenziosi e invisibili agli occhi dei tanti Liborio Paglino, che non riescono a vedere nulla.
“Cani di bancata sono, a Palermo, i randagi che si nutrono degli avanzi dei banconi del mercato, in senso lato i parassiti, per Emma Dante i mafiosi”.
Maria Pina Sestili
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