Nello spazio dei Laboratori Dms della Soffitta il 21 febbraio
L’impressione che si ha è di uno schieramento militare. Due file di ragazzi e ragazze entrano da un lato e dall’altro della sala, le luci ancora accese si abbassano creando il silenzio tra gli spettatori, le due file avanzano su una musica cadenzata e si fermano sul palcoscenico davanti a noi. Sono vestiti tutti nello stesso modo: camicia e kilt neri, calzoncini e scarpe bianche. Da questo momento tutto diventa ritmo e movimento.
I ragazzi si muovono perfettamente all’unisono eseguendo movimenti diversi a canone; si muovono creando dei cerchi e dei quadrati, “rompendo le righe” solo nel passaggio da una figura geometrica all’altra, con piccole fughe che vogliono forse significare il tentativo di tirarsi fuori da queste forme che li inglobano. Ma poi tutto si ricompone.
Sul palcoscenico, per terra, croci colorate guidano i loro movimenti, unico elemento scenografico. La musica cresce e decresce di volume e ritmo cosi come la qualità e la quantità dei movimenti, a tratti scatenati, violenti, salti e corse frenate, a tratti fluidi e ondulati mantenendo sempre la scansione ritmica. L’esercizio ginnico si lega a un rituale tribale in cui gli “attori” sono posseduti dalla musica, fuori dalla loro coscienza. Un ballo, non una danza, atleti, non ballerini, che mirano alla purezza del movimento inespressivo, alla coordinazione maniacale quasi meccanica. Una macchina da guerra di cui non riusciamo a distinguere i singoli e isolati pezzi ma che cogliamo nell’insieme di un unico movimento. Duelli si alternano a momenti di combattimento collettivo per poi lasciare soli gli individui chiusi nella propria agonia.
Il pubblico è completamente ipnotizzato.
Valentina Arena
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