Un urlo uterino, rauco, tirato che si acutizza nella voglia spasmodica di riappacificarsi a una terra avvertita come ostile, l’essere poeta di Mariangela Gualtieri interroga l’io scavando nel substrato, alla ricerca di un’energia che possa rimettere in circolo un humus palpitante. E’ forma di una materia che non è identità, di corpi che non sono patria, di neonati che cullano da soli il proprio pianto, di solitudini analizzate su un lettino, la storia epiteliale dell’uomo. La mano inquisitoria questa volta è la parola, parola assorta e invadente, parola autonoma filtrata da una voce, aggirata dai corpi, una parola che non è evocazione né rappresentazione, parola che non ha perno emotivo, parola che sbrana la vita riducendola a brandelli e scorge bellezza in quelle ferite, parola che se pur esibita in versi esce dai confini della pagina in cui è canonicamente chiusa e comincia a farsi udire, catalizzando una commozione rigeneratrice. “Misterioso Concerto”, titolo tratto da una poesia di Clemente Rebora, diretto da Cesare Ronconi, è un’esperienza, un tentativo di soccorso e di ascesa alla vita, nel senso pieno del termine. I testi scelti per questo concerto sono tratti da “Senza polvere e senza peso”, da “Paesaggio con fratello rotto” e da “Sermone ai cuccioli della mia specie”.
In scena un quadro molto pulito, tre postazioni minimali: un pianoforte per le mani di Dario Giovannini che accenna anche qualche nota di chitarra accarezzata come un violino, una pedana in posizione centrale per il corpo semi nudo, usato senza eccessi, di Muna Mussi, attrice presente in tutti gli ultimi lavori della Valdoca e una pedana laterale per Mariangela Gualtieri, su cui si muoverà con compostezza e con lunghi arti finti, in fondo un telo che diventerà schermo di proiezioni di alberi, contorni umani e fiamme. In questo spettacolo, come in tutti gli ultimi spettacoli di Cesare Ronconi, la voce degli interpreti passa attraverso l’amplificazione dei microfoni che rende il suono paradossalmente più intimo, perché in grado di svelare ogni piccolo respiro, ma anche più carnale, penetrante, in grado di percorrere grandi distanze e aprire nuovi varchi; il microfono si fa portatore di una sacralità architettonica che rimanda agli antichi luoghi di culto in cui musica e preghiera dovevano essere supportate da grande maestosità per attraversare l’ultra-spazio e arrivare all’orecchio di divinità sempre più sorde.
Alessandra Coretti
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