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Osservazioni, schizzi, resoconti, pensieri imperiodici dalla stagione del centro di promozione teatrale La Soffitta e non solo. Servizi, approfondimenti e recensioni a cura del laboratorio di critica teatrale "Lo sguardo che racconta" condotto da Massimo Marino presso la Laurea Specialistica in Discipline Teatrali dell’Università degli studi di Bologna.


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lunedì 23 giugno 2008

Danza sopra l’abisso

Kauma, un episodio del proggetto triennale di Fabrizio Favale


Cinque corpi che danzano, alternandosi in frammenti visivi che appaiono e scompaiono come flash back di un subconscio inquietante. Del Mahabharata Favale ha giustamente rifiutato di narrare le vicende, che sarebbe stato più che inutile; ha cercato di far percepire la lontananza di un orizzonte preciso, ovvero l’epicità discorsiva che il poema suggerisce. Per non cadere nell’abisso epico, il coreografo doveva aggrapparsi a qualcosa e lo ha fatto contando interamente sul corpo in movimento. Tutto accade sul e nel corpo del danzatore. Ma questo linguaggio, astratto già di per se, ha provocato nello spettatore un effetto di irritazione. I corpi danzanti di Kauma tramandano un’energia purtroppo centripeta, in modo da non far percepire la relazione fra essi e il mondo circostante. Se avessero collaborato col poema indiano nella sua eco centrifuga, sarebbe stato più chiaro in quale contesto operavano i corpi. Lasciare un esagerato spazio allo spettatore per ricrearsi un suo possibile percorso di interpretazione è un segno di poca responsabilità artistica. La danza che gira intorno a se stessa, schiava della sua autoreferenzialità, non può non provocare il desiderio di vedere oltre i movimenti fine a se stessi. E così le coreografie di Favale sono state inghiottite dal loro stesso abisso lasciando lo spettatore perplesso e pieno di dubbi.

Tomas Kutinjač

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